Ilva, una vergogna da 8 miliardi

Annullato il maxi-sequestro ai Riva. Chi pagherà per l'errore?

Veduta esterna dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto
Veduta esterna dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto

E adesso chi paga? Chi restituirà all'Ilva di Taranto mesi e mesi di incertezza produttiva, chi restituirà ai lavoratori dell'acciaieria la paura di perdere il proprio lavoro, trasformatasi da tempo in vero e proprio terrore? Ieri la Cassazione ha restituito al gruppo Riva 8 miliardi e 100 milioni di euro che il gip Patrizia Todisco, divenuta da tempo l'eroina dell'ambientalismo tarantino, aveva requisito il 24 maggio in base a una quantificazione danno ambientale creato dal siderurgico tarantino, secondo il principio del «sequestro equivalente». Spieghiamoci: si tratterebbe di sedicimiladuecento miliardi di vecchie lire. È un provvedimento enorme, la restituzione ai Riva di questa immensa massa di denaro, e risolve qualcosa? No, non risolve niente. Non fa che ingarbugliare una situazione drammatica, creare confusione e arrecare ulteriori incertezze a una città sfibrata da un anno e mezzo di conflitti feroci attorno al destino della più grande acciaieria europea.

Evidentemente, nel dispositivo stabilito dal gip Patrizia Todisco (per intenderci, quella che abbiamo visto raffigurata sui cartelloni come icona di svariate manifestazioni) c'era qualcosa che non funzionava, ed è troppo facile ora segnalare un'ovvietà, ovvero che l'atteggiamento di una parte della magistratura tarantina verso l'Ilva, e il futuro dell'acciaio a Taranto, è stato – diciamo così – accompagnato da pesanti pregiudiziali ideologiche. Il paradosso è che tutto ciò avviene nello stesso giorno in cui si era fatto un passo in avanti verso la copertura dei parchi minerali, responsabili delle polveri che si inoculano nei polmoni dei quartieri a ridosso dello stabilimento.

La decisione della Cassazione è un'altra tappa, l'ennesima, di una guerra a volte silenziose a volte prorompente che si combatte sulla pelle di una città, e non solo dei lavoratori del Siderurgico. E viene solo rabbia, tanta rabbia, a osservare tutto quello che accade, e che certamente non sottrae il gruppo Riva alle sue responsabilità, e a un atteggiamento verso quello che è ancora il capoluogo industriale più grande del Meridione e l'ultima, vera città operaia italiana, ma che mostra in modo ancora più nitido la divaricazione tra le azioni della magistratura, a partire dal sequestro dell'area a caldo dell'Ilva nel luglio 2012, e quelle degli ultimi due governi, che hanno cercato in ogni modo di far partire le azioni di ambientalizzazione dello Stabilimento impedendone però la chiusura. E invece la storia giudiziaria dell'Ilva di questi ultimi mesi è storia di sequestri, confische, lucchetti, blocco di un miliardo di euro di prodotti, e uno scontro tra giudici e autorità amministrative che, a conti fatti, certo non ha restituito ai tarantini la salubrità ambientale e sanitaria e invece continua a depositare ombre pesanti e scure su ciò che Taranto sarà nei prossimi anni.

Ma basta analizzare gli effetti della sentenza della Cassazione per constatare che a un gruppo industriale è stati tolta, per mesi, la disponibilità di denari in una quantità talmente ingente da strozzare l'attività produttiva di chiunque. E dunque? Che cosa succederà? Sicuramente la guerra giudiziaria ricomincerà da domani, implacabile. Per ora sappiamo che l'Ilva di Taranto ha drasticamente ridotto la sua produzione, che sul destino proprietario dello stabilimento si rincorrono voci discordanti, che l'Autorizzazione Integrata Ambientale (ovvero il complesso dei provvedimenti che dovranno portare all'ambientalizzazione della fabbrica) è in ritardo, che l'azione del commissario governativo prosegue in un'atmosfera di scarsa fiducia, che gli operai della fabbrica restano appesi a una vita di incertezza e che la città si ritrova spaccata in due, tra «industrialisti» e «anti-industrialisti», in una frattura dolorosa e incapacitante.

Tutto questo alla fine continua a giocarsi sulla pelle dei

tarantini, delle loro paure, paure maledette: la paura di perdere il lavoro, la paura di ammalarsi. E da ieri resterà comunque la percezione di un gioco avvelenato dove non ci sono vincitori, ma solo vittime, i più deboli.

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