L’INTERVISTA ANDREA RONCHI

RomaNon si può predicare bene e razzolare male. «Non ci si può lamentare che l’immigrazione clandestina non viene combattuta a dovere, se poi, allo stesso tempo, anche noi lucriamo e sfruttiamo la povera gente». Andrea Ronchi non archivia affatto, sotto la voce «provocazione», l’analisi sul «lato oscuro» della storia di via Padova, pubblicata ieri sul Giornale, in cui si denunciava la «piaga» degli inquilini irregolari, alimentata dai proprietari di casa pronti ad arricchirsi con gli affitti in nero. Il ministro per le Politiche Ue non nasconde la testa sotto la sabbia, anzi: «Condivido in pieno il giusto richiamo di Cristiano Gatti nei confronti di questa inaccettabile situazione. Se si vuole combattere davvero la clandestinità, si deve pure impedire che gli italiani speculino sulla vicenda».
Ma in che modo, visto che va avanti così da parecchi anni?
«Dal 28 maggio è in vigore un decreto con cui il governo ha imposto pesanti sanzioni penali per chi disattende le norme sugli affitti agli immigrati, con pene tra i 3 e i 5 anni di reclusione. Quindi, la risposta è semplice: la legge esiste e va applicata».
Si tratta di un fenomeno piuttosto diffuso, stando a un recente studio del Sunia, secondo cui l’85% degli immigrati che vive in affitto ha un contratto non registrato o depositato per una cifra inferiore a quella versata.
«Non a caso insisto su un punto: non possiamo prendercela con la clandestinità se poi ci rendiamo complici. Molti considerano un affare ammassare 15-20 extracomunitari in un appartamento di 50 metri, incassando migliaia di euro esentasse, ma è un controsenso che ci delegittima. Ecco perché concordo con quanto affermato da Gianfranco Fini».
Nello specifico?
«Sui fatti di Rosarno, il presidente della Camera ha detto: “Lo Stato non è credibile contro l’immigrazione clandestina quando è altrettanto duro con gli schiavisti”. Purtroppo ci sono italiani che considerano lo straniero carne da lavoro, da poter sfruttare economicamente, offendendo il diritto alla dignità della persona».
Dai moderni trafficanti di schiavi agli affittuari italiani cambia poco. Ma come se ne esce, visto che il problema è generale e non è da addebitare solo agli errori passati del centrosinistra?
«Guardi, la ricetta è una sola e non cambia. Bisogna coniugare la legalità alla solidarietà, ovvero i capisaldi della legge Bossi-Fini, che contempla un principio chiaro: in Italia entra chi ha il lavoro. È l’unico principio in grado di coniugare la lotta all’irregolarità - su cui serve il massimo rigore e l’applicazione delle procedure di espulsione - e la capacità di favorire l’integrazione di chi lavora onestamente sul nostro territorio. Purtroppo, la legge viene spesso disapplicata, sia perché il racket della criminalità riesce a far entrare in Italia clandestinamente queste persone, sia per la tolleranza di parte della magistratura».
Ne discende che i «rastrellamenti» non dovrebbero convincerla.
«Il ragionamento è complesso, serve equilibrio e non può basarsi sulla demagogia strumentale. L’idea dei rastrellamenti è assolutamente stupida e bene hanno fatto Umberto Bossi e Roberto Maroni a bocciarla con forza. Il nostro compito è invece attuare un serio intervento politico, affinché si evitino episodi di scontri, razzismo e criminalità. Tanto per capirci, non dobbiamo gettare benzina sul fuoco e favorire l’innalzamento di muri da una parte e dall’altra».
Cosa ne pensa dell’ipotesi di incentivare la formazione di quartieri misti per distribuire in maniera più equa gli immigrati?
«Se ne può discutere, ma non credo sia il nodo centrale. Semmai, mi concentrerei molto di più sul controllo dei flussi economici di certe etnie, monitorando i money transfer. Perché ciò che mi preoccupa davvero è l’espulsione italiana dal territorio, che sta portando alla destrutturazione culturale delle nostre città. È un fenomeno gravissimo, su cui si dovrebbe intervenire in maniera seria. Non basta garantire la legalità e la sicurezza nelle strade, se poi non si contrastano le pressioni fortissime di alcune comunità per espellere dai quartieri i nostri connazionali».
Come a Piazza Vittorio a Roma?
«Esatto. Non a caso cito spesso l’esempio di un pizzettaro che resiste, stoicamente, con il suo tricolore ormai liso esposto fuori. È l’avamposto italiano, forse l’unico capace di resistere, nonostante le continue pressioni affinché venda tutto e ceda la sua attività. Ecco perché serve pure una seria politica di aiuto al sistema del commercio».
Be’, per il pizzettaro potrebbe intanto rivolgersi al suo collega di partito, Gianni Alemanno.
«Il sindaco ha fatto già moltissimo, visto che Roma, in generale, ha subìto la pesantissima eredità della gestione Veltroni, con lo sviluppo della città illegale dentro la città legale.

Alemanno, invece, sta applicando in pieno le leggi dello Stato, coniugando rigore e solidarietà. Ad esempio: si chiudono i campi rom abusivi e si allestiscono quelli attrezzati, dando molta attenzione alla scolarizzazione, alla salute e alla dignità di quei minori per troppo tempo sfruttati nell’indifferenza».

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