Non vorrei che la abbondante e dedicata campagna sulla scorta di Fini, sulle sue abitudini vacanziere, sulla infinita pacchianeria sua e della compagnia di giro che lo attornia e gli si lega al collo come una delle famigerate cravatte rosa che gli pendono troppo lunghe sulla figura, mettesse in ombra la infinita stupidità politica del suo comportamento pubblico e la scarsa dignità repubblicana del modo che ha scelto per rivestire un ruolo, quello di presidente della Camera, che ebbe in passato una qualche importanza. Ero contrario alla sua cacciata, allo spirito di rissa con il quale Berlusconi e il gruppone degli ex An risposero alle sue provocazioni, e avevo ragione io senza se e senza ma, visto come sono andate poi le cose. Ma il punto non è questo. Cosa fatta capo ha, anche quando sia una cosa senza capo né coda. Dopo l’uscita di Casini dal centrodestra nel 2008, con la formazione del Pdl, locupletato dopo la vittoria elettorale di una presidenza d’assemblea che è anche una tribuna politica di prim’ordine, Fini aveva occupato una posizione, non dirò convincente, ma realistica e anche interessante. In pratica: ho cinquantasei anni, sono l’altro leader dopo Berlusconi, per la successione devo emendarmi ulteriormente delle mie origini ideologiche e partitanti tutto sommato impalatabili per la maggioranza degli italiani, siedo su un tronetto istituzionale in cui fare un po’ di trasversalismo politico e culturale è quasi ovvio, dunque parlo di una destra moderna, tempero e modero qualche eccesso del Cavaliere, mi comporto lealmente verso la politica e l’uomo che mi ha tiratofuori dall’angolo, ma costruisco un discorso indipendente e insieme compatibile con la situazione in cui mi trovo. Gli argomenti erano abborracciati, ma il controcanto, come lo chiamava il Cav, un suo senso ce l’aveva. Poteva alla lunga risultare utile al blocco di forze al quale Fini apparteneva inestricabilmente, poteva aiutare tutti e lui per primo arricchendo la destra moderata di una nuova prospettiva.
Come è universalmente noto, il tutto finì a schifìo, anche perché le polemiche bisogna saperle governare con sapienza, e Fini è un piccolo mossiere della politica troppo ignorante per capirne la vera natura. Che ti fa, il leaderissimo, dopo la caduta? Tutto quel che è necessario per avvalorare i sospetti dell’elettorato di centrodestra: una politica generica di slealtà, di resa alle ragioni degli avversari, di simbolica e grottescadedizione a un centrismo pendolare senza fascino e senza idee.
Anche quelli come me che pensavano come significativa o almeno accettabile la sua posizione prima della rottura con lo schieramento di appartenenza, hanno dovuto riconoscere che l’uomo non ha la stoffa per tenere un discorso credibile, che il suo unico problema è la rielezione in Parlamento, la continuità di rito della sua posizione nel palazzo politico, e nulla più.
Diventato un classico né carne né pesce, Fini non ha ottenuto, né non poteva ottenerlo, alcun riconoscimento serio e sincero nel mercato del consenso e dell’opinione. È rimasto solo con un pugno di simpatici e meno simpatici marrazzoni, un piccolo capoapparato vincolato a una logica minuscola di risentimenti e di procedure di salvezza personale e di gruppo, ridicolmente applaudito e blandito a sinistra e al centro, finché spremuto come un limone è stato relegato al ruolo di personaggio disutile e ridondante. Berlusconi ha a modo suo, anche nella disfatta, scritto un pezzo, ancora un pezzo, di storia del Paese, varando il governo Monti- Napolitano e governando finora con accortezza la propria scelta. Fini è rimasto seduto tra due sedie, e ha battuto comicamente il sedere sulle fisime del cosiddetto terzo polo, come è inevitabile quando manchino passione vera per la battaglia e capacità di assorbirne il senso e il dolore. Che disastro, che prova di grettezza e inconcludenza.
Più grave ancora, la scelta di rannicchiarsi, con o senza scorta, in una presidenza della Camera ridotta a vuoto contenitore di piccolo privilegio istituzionale, con una straordinaria capacità di mentire, smentirsi, fazioseggiare. Doveva dimettersi per quella storia del cognato, così aveva promesso, e non lo ha fatto quando è venuto a sapere, incontrovertibilmente, che la casa di Montecarlo lasciata al partito gli era stata svenduta come a un famiglio qualsiasi, chissà se a sua insaputa. Doveva dimettersi quando era venuto il momento di mostrare un po’ di fuoco nella pancia, costruire qualcosa in proprio dopo aver sperperato il patrimonio precedente come un bambino viziato. Non lo ha fatto, rischiare è un verbo che non conosce, ha piegato invece la funzione istituzionale a un disegno di sopravvivenza personale senza babbo né mamma, e ora si avvia alla consacrazione finale di un triste declino, con la scortona di Orbetello e senza un brandello di popolo che possa anche solo minimamente e lontanamente credere in lui.
Un’immersione che è anche un vero capolavoro.
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