L'instabilità genera sprechi: presidenzialismo idea anticrisi

Esecutivi stabili e maggioranze forti garantiscono più rigore sui conti. Ecco perché le riforme economiche e quelle istituzionali sono correlate

«Grande è la confusione sotto il cielo, perciò il momento è propizio». Crisi economica e crisi istituzionale non sono solo due facce della stessa medaglia, dal loro intreccio nasce l'arretratezza della società italiana. Il governo ha varato la commissione di esperti, ha approvato il disegno di legge sul finanziamento ai partiti e la procedura speciale per la riforma della Costituzione.

Anche nel paese è cominciato il dibattito. I professionisti dello status quo, con il loro manto di purezza sacerdotale nella difesa della Costituzione, sono sempre all'opera. Ma che senso ha occuparsi di riforme costituzionali in un tempo di emergenza economica? Da economista, prima che da uomo politico, dico che senza riforme istituzionali potremo forse tamponare la crisi attuale, ma non avremo messo in sicurezza il Paese. Il Pdl ha fatto bene ad imboccare la strada della riforma presidenzialista già da tempo. La forma di governo non è neutra rispetto alle scelte di politica economica. Come è stato dimostrato in molti studi, nelle democrazie parlamentari la frammentazione e la competizione interna ai governi di coalizione induce - oltre all'instabilità - incrementi significativi della spesa e del debito pubblico. Questo perché il nesso tra il potere di controllo degli elettori e la rappresentanza politica è molto più diretto nei sistemi bipartitici rispetto a quelli proporzionali, rafforzando il nesso tra elettore e obiettivi di corretta gestione della finanza pubblica. Un governo sostenuto da un solo partito produce meno dispersione di risorse nello scambio politico con la propria base elettorale. Ciò si traduce in minore spesa pubblica, minore pressione fiscale, minore deficit pubblico, minore debito pubblico.

I sistemi bipartitici introducono l'idea che le elezioni siano una competizione nella quale la lista delle cose da fare è già scritta prima del voto, definita nei programmi di governo e incarnata dalle personalità dei leader che si assumono la responsabilità della sua realizzazione e sulla quale gli elettori si pronunciano dentro le urne, assegnando una maggioranza solida al progetto che li convince di più. Il presidenzialismo può essere l'arma per liberarsi dalla cattiva politica, dalle rendite di posizione clientelari, sindacali, corporative, dai monopoli, dai poteri forti.

Un sistema semipresidenziale può rafforzare questa tendenza, soprattutto in Italia dove la patologica frammentazione è tradizione. Il presidente eletto garantisce stabilità e continuità politica, garantisce che il mandato elettorale non sia tradito, e che il Parlamento sia sciolto nel caso in cui si determinino pratiche trasformistiche. Con le riforme istituzionali si fa politica economica. L'Italia ha alcuni problemi strutturali che ci portiamo dietro da decenni: crescita costante della spesa pubblica anche nei periodi in cui il ciclo economico non lo richiedeva; bassa crescita anche nei periodi in cui il ciclo economico era favorevole; mancate riforme strutturali di cui parliamo da decenni e che solo in parte, e con il ricatto dell'emergenza, siamo riusciti ad avviare.

Perché oggi la condizione dell'Italia è per molti versi più critica? La ragione - parafrasando un fortunato volume di Giuseppe Di Palma degli anni '70 (storia vecchia dunque!) - è che l'Italia, con le sue deboli istituzioni, non ha potuto far altro che «sopravvivere senza governare». E il debito pubblico, la camicia di Nesso che in questi anni ci ha costretto all'austerità non è altro che il risultato numerico di quella fragilità istituzionale. Non potendo governare con scelte selettive, le nostre classi dirigenti, sottoposte continuamente al ricatto dei poteri di veto, hanno accontentato tutti con politiche distributive tanto largheggianti quanto irresponsabili, scaricando il costo sulle generazioni future.

Il problema è che quelle generazioni future oggi sono arrivate. Sono i nostri figli, e presentano il conto, dibattendosi, non a caso, in una disoccupazione giovanile da economia di guerra. Per contrastare l'emergenza ci servono istituzioni autorevoli e più immediatamente legittimate dal popolo. La riforma delle istituzioni trova in queste premesse la sua strutturale connessione con la crisi economica. Nei momenti di crisi, il presidente della Repubblica non è più solo un notaio, ma il garante della continuità istituzionale e della stabilità dell'indirizzo politico-democratico.

Perché i partiti dovrebbero essere più bravi dei cittadini a scegliere il capo dello Stato? È questa la domanda cui deve rispondere chi è contrario al presidenzialismo. Oggi i cittadini possono scegliere il sindaco, il presidente di Provincia e di Regione. Non c'è motivo per cui non abbiano diritto di scegliere anche il presidente della Repubblica. L'unico (inconfessabile) motivo è che i partiti vogliono conservare il potere di nominare il capo dello Stato per fare i propri accordi sottobanco e dividersi le poltrone.

Non c'è da stupirsi allora dell'aumento dell'astensione e del voto di protesta. È quando le istituzioni sono deboli e instabili che vince l'antipolitica, mentre ciò non accade quando le istituzioni sono democraticamente legittimate e hanno un effettivo potere di realizzare le promesse elettorali. Da quale parte vogliamo stare?

Come ho sempre detto, in ogni crisi c'è sempre anche una grande opportunità. Oggi ne abbiamo due. La prima, sul piano della politica nazionale, è quella che si profilerà se veramente, a sinistra, cadrà il tabù sul presidenzialismo - come, in questi giorni, sembra possibile che accada, a seguito delle autorevoli opinioni di Prodi, Veltroni e Renzi. La seconda è che il processo di riforme possa concludersi proprio quando all'Italia toccherà la presidenza dell'Unione europea. Essere stati in grado di modificare la nostra governance potrebbe darci un titolo di legittimità per farci promotori, proprio durante la nostra presidenza, di una riforma della governance europea.

Il prossimo Consiglio europeo del 27 e 28 giugno 2013 può essere quello che lancia la nuova fase costituente dell'Europa.

Un processo riformatore che porti alla realizzazione delle 4 unioni: bancaria, economica, di bilancio e politica, avviate nel 2012 con l'approvazione del documento «Verso un'autentica unione economica e monetaria», la cui implementazione ha subìto un rallentamento per le scadenze elettorali tedesche del prossimo settembre 2013, e che da quella data deve ripartire per poter eleggere direttamente, già dalle Europee 2014, il presidente della Commissione Ue, e di avere al più presto un unico ministro economico, un unico ministro degli Esteri, un esercito unico europeo.

L'Italia e l'Europa sono legate ormai da un unico e comune destino. Noi lo sappiamo, ma anche l'Europa lo sa. Ed è per questo che un'Italia forte e autorevole non potrà essere ignorata.

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