L'ira missina al funerale di Rauti. Sputi e spinte a Fini: "Badoglio"

L'ex leader Msi e An aggredito con insulti e fischi alle esequie del suo predecessore. Momenti di tensione poi la figlia riporta la calma. Alla fine fuga dall'uscita laterale

Roma - La rabbia e l'orgoglio missino. L'odio per il Traditore. L'accoglienza riservata alla terza carica dello Stato sul sagrato della chiesa di San Marco per l'ultimo saluto a Pino Rauti è carica di disprezzo. È la resa dei conti tanto attesa, da consumare in un momento qualunque ma consumata nel posto sbagliato. Passata la mezza, sotto il cielo uggioso di Roma s'odono grida inumane, volano sputi, spintoni, fischi, manici d'ombrelli, schiaffi che non arrivano a colpire Gianfranco Fini solo grazie alla scorta che gli fa da scudo. La colonna sonora dell'ennesimo funerale politico del presidente della Camera va edulcorata per decenza: «Giuda», «maledetto», «infame», «bastardo», «poveraccio», «buffone», «Badoglio», «pagliaccio», «ladro», «carogna», «torna a Montecarlo», «provocatore», «esci dalla chiesa», «fuori, fuori, fuori, fuori, fuori...». L'ira di Dio nella casa del Signore. Il replay di una scena già vista con l'ex presidente Scalfaro aggredito dalla gente di Palermo rimasta orfana del giudice Borsellino e stanca delle Istituzioni in passerella.
Lui, strattonato dai gorilla e dalla folla, tiene lo sguardo basso terrorizzato da quella gogna di braccia tese. Affretta il passo fin dentro la basilica barocca per guadagnare fiato e riparo. Rimbomba forte il «Boia chi molla» alle sue spalle quando la messa è cominciata da un po'. La funzione per celebrare il segretario del Msi e il fondatore di Ordine Nuovo però s'interrompe più volte poiché gli insulti non danno scampo all'ultimo arrivato. Lo inseguono dalla strada, lo braccano dentro, irrompono dai banchi della navata centrale che Fini percorre a fatica prima di trovare una panca accanto al feretro nel tricolore, tra l'ex sottosegretario Mantovano e la vedova Almirante. Nella chiesa cara ai fascisti romani per la vicinanza con piazza Venezia e la messa in suffragio di Mussolini officiata da chi non fa mistero di alternare la fede cristiana a quella per la fiamma, Isabella Rauti, figlia di Pino e moglie del sindaco Alemanno, supplica silenzio. «Vi prego, non è questo il momento, è il funerale di mio padre. Abbiate rispetto per lui e per la mia famiglia». E così sia. Cala il silenzio, è l'ora della preghiera e del ricordo. Con Fini che arriva, c'è uno Storace che se ne va disgustato dalla «provocazione».
Il presidente della Camera sente gli occhi del suo vecchio popolo addosso. Fissa il nulla sopra il crocifisso e terminata l'omelia per evitare il bis esce dal retro. Mischiati tra i banchi, a capo chino, restano gli ex rautiani di sicura fede finiana Granata, Perina e Barbaro, più in là, di lato, uno stanco Lamorte. L'aria si fa cupa anche tra i vecchi missini tipo Gasparri, Matteoli, La Russa, Landolfi, Gramazio, Viespoli, o tra i più «giovani» eredi come la Meloni, Rampelli, Augello. Non fiata il «caccola» Delle Chiaie, non spiccica parola l'editore nero Ciarrapico, non commenta Guido Paglia a cui Fini raccomandò il cognato in Rai. L'atmosfera si rasserena solo dando fiato al «presente» all'aria aperta, la bara a spalla, cantando e stonando l'inno hobbit del «domani appartiene a noi».
Amici, vecchi militanti, colleghi del Tempo seguono Rauti al cimitero. Le polemiche sembrano placate quando si sono in realtà spostate dal sagrato alle agenzie di stampa, e da qui a blog e social network. Storace, per dire, non ci gira troppo intorno: «Il presidente della Camera, pur volendo rendere omaggio a Rauti, ha agito a freddo. Ho appreso da funzionari del cerimoniale che la sua presenza non era prevista. Se ha deciso all'ultimo, ha sbagliato e di grosso. Su di lui si è scatenato il rancore di persone e comunità che si ritrovavano nel lutto per un capo che se ne va in un mondo sempre più disperso e principalmente a causa sua. Avrebbe fatto bene ad astenersi, la sua è apparsa ai più una presenza provocatoria». Stessa idea, via Twitter, per la Santanché («Che vergogna presentarsi ai funerali di una sua vittima») e Corsaro, vicecapogruppo Pdl alla Camera («Fini è l'uomo, con la minuscola, più squallido del mondo. Sarebbe stato meglio non salutarlo, trattarlo come il nulla che è...»).
Con Fini arroccato nel suo ufficio a Montecitorio, rispondono al fuoco i soliti irriducibili difensori di Gianfry. «Da cittadino e da leader politico coraggioso - dice Granata - Fini ha reso omaggio a un personaggio che fa parte della nostra storia. A viso aperto, senza ricorrere al cerimoniale e affrontando le contestazioni». Di più il collega deputato di Fli Di Biagio: «La messa in scena da parte di gentaglia che ha poco a che fare con la politica è vergognosa e strumentale».

Per dirla come l'avrebbe detta Pino Rauti, almeno ieri a un certo punto sarebbe stato meglio «andare oltre». Oltre il rancore, oltre le polemiche. Soprattutto oltre i ripetuti tradimenti di chi aveva finalmente mostrato un po' di coraggio prima di scappare dalla sagrestia.

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