Il porto è lì, dietro il muro, dietro i cancelli e ci si può entrare solo se hai il pass da far vedere ai vigilanti per superare il varco. E, fino a ieri, quel muro è stato un Muro, una Berlino sul mare. Di qui la città, di là il Porto. Che, se ci lavoravi a qualsiasi titolo era il tuo ufficio, la tua fabbrica, il tuo mondo, la tua vita. Ma se invece non ci lavoravi, erano le colonne d'Ercole, qualcosa di cui sentivi parlare, un'ipotesi. E ogni incidente, come i camalli schiacciati dalle gru o dai carichi, era un'eco lontana, ma qualcosa che non toccavi con mano. Dietro il Muro.
Ieri mattina Genova si è risvegliata ed era caduto il Muro. Perché quella palazzina della capitaneria sbriciolata era forse la prima prova visibile della morte oltre il Muro. Se vedevi Genova dal mare - «e chi guarda Genova sappia che Genova si vede solo dal mare» cantava Ivano Fossati, ed è verissimo - quella palazzina dovevi vederla. Troppo moderna, troppo discontinua, troppo visibile e in qualche modo pure un po' pacchiana rispetto al resto del waterfront, delle gru e delle banchine. E, soprattutto, sulle rotte percorse dai gommoni come dagli yacht, dai motoscafi come dai giganti da crociera, visibilissima. Come il Colosseo per Roma o il Duomo per Milano. Ecco, la palazzina era quella roba lì. Oltre, naturalmente, ad essere l'equivalente della torre di controllo per un aeroporto, il cervello e il cuore delle operazioni.
Quindi, vederla sbriciolata era il segno tangibile della morte, di quelle vite spezzate da una manovra sbagliata o, con ogni probabilità da un'avaria meccanica, con la marcia che non entrava più. E, di fronte alla morte di lavoratori del tutto incolpevoli, quella palazzina così pacchiana sembrava, davvero, non solo metaforicamente, bellissima, il Duomo o il Colosseo.
Poi, dopo la morte, la sensazione totale e assoluta di impotenza. Perché, di fronte alla tragedia di ieri, Genova si scopre assolutamente disarmata nei confronti del mare. E così il Porto, che per la città è il pane, diventa in qualche modo un po' nemico, pericoloso. Anche senza volerlo, visto che ogni standard di sicurezza, formalmente, era assolutamente rispettato nelle procedure di viaggio della nave della Messina, che pure era la più vecchia e obsoleta della flotta, non uno dei gioiellini appena consegnati. Addirittura, non era come nella London Valour cantata da Fabrizio De Andrè andata a sbattere contro la diga foranea. Lì il mare era impetuoso e il vento soffiava come bora. L'altra notte, il mare era olio.
E questo, se possibile è ancor più drammatico. Perché se ci fosse il colpevole immediato, se avessimo in mano lo Schettino della situazione, allora sarebbe tutto più facile. Invece, così, è tutto maledettamente più difficile, tutti siamo più indifesi e, soprattutto, la caduta del Muro non è più solo positiva, anzi.
Per esempio, abbiamo saputo dal presidente del Porto Luigi Merlo che la nave non avrebbe dovuto assolutamente essere lì, che proprio era impossibile che passasse di lì. E allora, perché era lì? Ma, soprattutto, visto che era in un posto dove mai si sarebbe pensato che fosse e visto che ha fatto una manovra che mai nessuno avrebbe pensato che potesse fare, tutto questo avrebbe potuto succedere anche altrove. A un'altra ora e un altro giorno.
Magari nel week-end, poche decine di metri più in là, al Porto Antico. Che è l'unica area della città dove c'era il Muro e che Renzo Piano ha ridisegnato senza Muro, restituendola a Genova. Oggi, fra l'Acquario, l'ascensore panoramico Bigo e la Biosfera, è l'attrazione centrale per genovesi e turisti. E Slow Fish, la fiera del pesce e della pesca che avrebbe dovuto essere inaugurata in pompa magna oggi, avrebbe ulteriormente portato migliaia e migliaia di persone nel week-end in questa splendida piazza sul mare. Che andavano ad aggiungersi a quelli che ogni settimana si mettono pazientemente in coda per entrare all'Acquario.
Ecco, se fosse successo al Porto Antico, cosa saremmo qui a raccontare? Certo, si dirà che è impossibile che succeda al Porto Antico. Ma era impossibile che succedesse anche alla palazzina, e invece è successo.
Ogni anno, spiega l'ammiraglio Felicio Angrisano, comandante del Porto e della Capitaneria, che proprio oggi avrebbe dovuto partire per Roma per comandare tutte le Guardie Costiere d'Italia e piange disperato («Voglio restare qui, rinuncio alla promozione»), ci sono quattordicimila operazioni simili. Insomma, l'ingresso e l'uscita da un porto di una portacontainer con i rimorchiatori avanti e indietro sono una manovra di routine, come un parcheggio a lisca di pesce per un automobilista. Nessun rischio, sembrerebbe.
Invece. Invece, la tragedia. Che è tragedia umana, immane, e che avrebbe potuto diventare anche tragedia economica se la nave fosse affondata, bloccando di fatto per chissà quanto il Porto, l'unica attività economica rimasta con segni positivi in una Genova dove la crisi è più cattiva e senza orizzonti, appollaiata sulla conservazione e timorosa di tutto.
Ieri, assieme alla palazzina, è crollato il Muro. Ma fa molta più paura.
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Massimiliano Lussana
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