L'ennesima pace tra Maroni e Bossi: al Senatùr assegno ma niente cariche

Ieri in via Bellerio prove di separazione consensuale: ma prima si proverà a ricucire col fondatore

L'ennesima pace tra Maroni e Bossi: al Senatùr assegno ma niente cariche

Roma - Prove di separazione consensuale, con compensazione (economica), come nei matrimoni andati male. Il divorzio in questione sarebbe clamoroso: Bossi che lascia la Lega, da lui fondata 28 anni fa. Eppure è questa la bozza sul tavolo del segretario federale Maroni, convinto che la questione Bossi vada risolta o «l'Umberto» resterà una scheggia impazzita, destabilizzante dentro un Carroccio alle prese con già abbastanza problemi (le Comunali sono state un flop, dimezzamento dei voti, macerie di roccaforti come Treviso, la Stalingrado leghista).

I termini legali del divorzio prevedono la rinuncia di Bossi alle cariche nel partito e di fatto il suo pensionamento politico, agevolato non solo dal vitalizio parlamentare (cifra cospicua, visto che Bossi ha sette legislature alle spalle) più l'assegno di accompagnamento, ma anche da un bonus economico da via Bellerio (che sarebbe mantenuto nella separazione consensuale) per le necessità dell'ex capo affaticato dagli anni e dalla malattia e perciò seguito h24 da personale specializzato. Il divorzio è ancora l'extrema ratio presa in considerazione, nel caso in cui fallisse l'accordo (per la verità, l'ennesimo) siglato l'altro giorno in via Bellerio tra Maroni e Bossi, in perenne agitazione vendicativa. Una nuova «pax leghista» che, in cambio della rinuncia a sabotare la Lega, riassicura a Bossi lo standard economico garantito da via Bellerio, più un'apertura sulla prossima segreteria federale a un colonnello di pace come Giancarlo Giorgetti, più morbido con Bossi rispetto agli altri papabili per la successione a Maroni (primavera prossima), cioè Tosi e Salvini. «Con Bossi è stato un incontro franco», ma non sereno, racconta Maroni. «Finalmente ci siamo detti tutto quello che ci dovevamo dire. Cose molto precise, condivise da tutti, punti fermi da cui ripartire. Impegni presi». La leggenda in via Bellerio, però, dice che gli impegni con Bossi durano fino al portone di Gemonio, casa sua. Dove l'influenza famigliare riporta a galla il rancore verso Maroni, e allora arrivederci patti e accordi.

In effetti a Bossi frulla ancora per la testa l'idea di un suo partito. Non solo, Bossi è perennemente in via Bellerio, dove ha ufficio, stanza, letto, cucina. Vive lì, irrompe nella redazione della Padania, prende a male parole quelli che considera venduti a Maroni, «il traditore». Addirittura, non nasconde di essere contento per i problemi della Lega di Bobo, ed è convinto di avere un esercito pronto a seguirlo, sorta di Don Chisciotte padano: «La gente è con me. E Berlusconi si fida solo di me», ripete. Maroni vede nella «litigiosità», in particolare di Bossi, una delle cause del flop della Lega alle amministrative. In Veneto e Lombardia supera di rado l'8% («Si chiude un ciclo» dice Luca Zaia), in Piemonte e Liguria, un tempo crescenti, la Lega si miniaturizza (a Ivrea 1,8%, a Imperia 2%). Maroni ha convocato domenica a Milano tutti gli eletti della Lega per ripartire con «un progetto politico nuovo e rinnovato» (presto i nuovi «Stati generali del Nord»). Salvini annuncia azioni clamorose di protesta per «trattenere i soldi sul territorio, anche disubbidendo» a Roma e Bruxelles.

Serve una scossa per tornare ad essere il partito di riferimento della questione settentrionale (Mantovani del Pdl dice «il Nord non è più un argomento trainante» e Maroni lo fulmina: «Ora gli spiego un po' di cose»), tema che il centrodestra sta perdendo, ma che la sinistra non riesce a far suo. Il bacino elettorale, che stavolta si è astenuto, è ancora lì, raggiungibile - è convinto Maroni, che parla di «consenso congelato». Bisogna suonare le corde giuste (e nel frattempo, abbassare il volume a Bossi).

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