Quel che ha fatto tornare di piena attualità l'opacità, ovvero, per usare le parole del ministro dell'Economia e delle finanze, Fabrizio Saccomanni, la «complessità» dei conti pubblici italiani, nonché la gestione poco trasparente del ministero competente, sono gli 8 miliardi di perdite potenziali per il bilancio dello Stato derivanti da un'operazione di rinegoziazione di contratti derivati avvenuta nel 2012.
La storia è nota, nonché noiosa, e se ne è fatto un gran parlare. Ma è altrettanto seria, se si considera che ad essa è stato dedicato un ampio passaggio della requisitoria orale del 27 giugno del procuratore generale presso la Corte dei conti, Salvatore Nottola, nel giudizio sul Rendiconto generale dello Stato, esercizio 2012: «A margine delle considerazioni generali sul bilancio, una notazione particolare dev'essere dedicata all'incidenza degli strumenti finanziari derivati sui conti e, in particolare, sul debito pubblico».
La Corte dei conti è da sempre molto critica nei confronti della poca trasparenza con la quale la Ragioneria Generale dello Stato opera la stesura del bilancio dello Stato. Nei documenti ufficiali, la Corte dei conti è solita denunciare gli errori e le discordanze principali che rileva nell'ambito della sua attività di controllo. Questi riguardano sia le entrate che le spese. Le violazioni più tipiche fanno riferimento alle differenze tra gli importi iscritti nel rendiconto e quelli che appaiono nella contabilità delle singole amministrazioni; all'evoluzione dei residui (spese impegnate ma non ancora pagate, entrate accertate ma non ancora riscosse) di cui molte volte la Rgs non è in grado di ricostruire il percorso; a entrate contabilizzate come riscosse (mentre in realtà non lo sono state); a poste di bilancio con ammontare diverso da quanto preventivato.
Questa mancanza nel rispetto delle regole contabili ha comportato come conseguenza la perdita della «memoria storica» del bilancio dello Stato, tanto che per alcune poste è ormai impossibile ricostruire la storia e valutare se tali voci siano attendibili oppure no. Parole pesanti come pietre, che, però, non sembrano avere scalfito l'animo dei responsabili del bilancio statale. Non male, se si considera che questo bistrattato bilancio comprende più di 800 miliardi di spesa pubblica e un ammontare di poco inferiore di entrate, di cui 500 miliardi entrate tributarie, 200 miliardi di contributi sociali e circa 50 miliardi di altre entrate; nonché un debito pubblico che supera i 2.000 miliardi.
Prendiamo i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti dei privati. Quanti sono? Eurostat parla di poco più di 70 miliardi: non proprio un bruscolino. Per Banca d'Italia i miliardi sono 90. Confindustria alza l'asticella oltre l'iperbolica cifra di 100 miliardi. Prendiamo per buone le cifre della Banca d'Italia. Quei 90 miliardi corrispondono all'incirca al 15% della spesa corrente della nostra Pubblica amministrazione. Altro esempio: il gettito Imu. Il Parlamento aveva approvato quella tassa, che tanto ha indignato gli italiani e messo in ginocchio l'intero mercato immobiliare, prevedendo entrate per circa 20 miliardi. A consuntivo il gettito è stato molto superiore (oltre 4 miliardi). Nel privato, se per un errore qualsiasi la bolletta della luce addebita un costo maggiore, la società emittente è solita rimborsare il mal tolto nella successiva fattura. Questa regola elementare non vale per lo Stato. Quei 4 miliardi in più sono finiti in cavalleria: usati dalla burocrazia del Ministero, all'insaputa di tutti, per coprire altri buchi di bilancio.
Questi piccoli esempi fanno capire di più di qualche ponderoso trattato. Se non controlliamo il 15% della spesa, come possiamo evitare che una percentuale solo leggermente più piccola (il 4% secondo i rilievi recenti della Commissione europea) finisca nel buco nero della corruzione? Ecco allora che parlare di trasparenza o di accountability, come dicono gli inglesi, non significa solo discutere di numeri e di regole contabili, ma dell'essenza stessa dello Stato democratico e del suo rapporto con i cittadini. Si dice che il diritto costituzionale sia nato in Inghilterra agli arbori dell'anno 1000. Allora i grandi feudatari, con il grido «no taxation without representation» imposero al Re il controllo dei conti pubblici. In Italia a che punto siamo? Nel ministero dell'Economia e delle finanze si concentra ogni potere, dando luogo alla figura del «controllato-controllore». Chi decide le politiche di bilancio? Il ministro. Lo fa sulla base di elaborazioni della sua struttura interna, che poi comunica al Parlamento. Chi controlla i risultati? È sempre il ministro. Che nel procedere lungo questa linea deve tener conto del crescente condizionamento degli Organismi internazionali, a partire dalla Commissione europea, ma che conserva comunque margini discrezionali ampi. Ed i controlli ex post della Corte dei conti, come abbiamo visto, considerati poco più di un pannicello caldo. Quello che ancora manca è la dovuta attenzione agli aspetti non puramente finanziari, che rappresentano il cuore delle possibili politiche di riforma. Gli scarsi risultati ottenuti dalla spending review sono anche conseguenza di questa impostazione metodologica.
Secondo un recente rapporto di Mediobanca, l'85% delle aziende intervistate considera prioritario la riduzione dei propri costi di produzione. È un problema che riguarda solo il privato o non deve investire anche quel mammut che è la Pubblica amministrazione? Ma esistono, in Italia, gli strumenti concettuali per tentare, non diciamo per risolvere, un problema di questa natura? La risposta è necessariamente negativa. Ed allora addio ai sogni di una spending review incisiva e risolutiva. Ma se non miglioriamo la «transparency» e il «performance budgeting», come ci ha chiesto la Commissione europea fin dal 2009, ogni successivo traguardo diventa impossibile da realizzare. Oggi buona parte della spesa corrente netta è gestita a livello locale: Regioni, Province, Comuni e mille altri organismi intermedi, in un disordine senza fine. Questa frammentazione istituzionale rende ancora più opaca la gestione complessiva.
Che queste preoccupazioni non siano eccessive è dimostrato dalle decisioni recentemente assunte a livello europeo. Decisioni che hanno reciso un nodo altrimenti inestricabile. Già dal prossimo anno il controllo di tutti gli aggregati di bilancio (entrate e spese, sia del centro sia degli Enti locali) dovrà passare nelle mani del «Fiscal council»: una sorta di authority dei conti pubblici italiani. Una vecchia macchina amministrativa è quindi destinata ad andare in soffitta. Naturalmente la Ragioneria generale dello Stato rimarrà, ma non più come organo tuttofare. Come in un'azienda privata c'è chi è responsabile della gestione della contabilità, ma poi ci sono le società di revisione ed il Collegio sindacale, così nello Stato avremo, finalmente, una netta separazione tra chi gestisce materialmente i conti e chi li controlla, in tempo reale. Verrà finalmente meno una delle tante anomalie italiane.
Insomma, la poco chiara, o, come abbiamo detto all'inizio, «complessa» gestione dei conti pubblici italiani è nota, nonché certificata dall'organo preposto al relativo controllo: la Corte dei conti; l'Europa ci impone, previsto dal Six Pack, nonché da una nostra Legge costituzionale, l'istituzione di un organismo di raccordo, nonché di controllo dei conti pubblici, fra Commissione europea e ministero dell'Economia e delle finanze: il Fiscal council; a livello internazionale le buone prassi di predisposizione del bilancio dello Stato ci sono.
Cosa aspettiamo ad adottarle anche noi? Una contabilità pubblica trasparente è il primo e più importante segnale di credibilità che possiamo dare ai mercati. La riforma delle riforme, se questo paese vuole veramente cambiare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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