Una sensazione sinistra ho cominciato personalmente a percepirla anni fa, quando avevo due figli piccoli in due scuole diverse della stessa città: la brutta mattina che arrivò un terremoto, per fortuna poi senza particolari conseguenze, un figlio venne condotto in strada, l'altro restò dentro. Mi dissero che le competenze, i regolamenti, i piani, insomma tutto un castello (...)
(...) burocratico di astruse teorie lasciava dipendere le decisioni dall'estro dei singoli.
Gli anni passano, le catastrofi si susseguono, i funerali impazzano, ma la stessa sensazione di gelo e di inquietudine non se ne va. Ogni volta, a disastro compiuto, si scopre che il sistema di allarme - vale a dire il primo, fondamentale, irrinunciabile intervento contro le calamità - è una tragicomica pulcinellata. Quanta tristezza. Mentre dalla Sardegna ci informano puntualmente che la prevenzione non esiste, che il saccheggio del territorio è raffinato (a Olbia ventuno condoni edilizi in quarant'anni, media uno ogni due anni, per rendere legale una città abusiva), che interventi contro il dissesto idrogeologico neanche a parlarne, proprio mentre affondiamo nella solita melma apprendiamo il dettaglio più pittoresco: l'allarme è arrivato domenica via fax, negli uffici comunali ovviamente chiusi.
Di fronte a un apparato tanto surreale, che sarebbe tutto da ridere se non fosse costato sedici morti (sedici restano un'enormità, ma lo sarebbe anche uno solo, per Dio), di fronte all'ennesima barzelletta, una sola domanda rimbalza dalla magnifica isola (saccheggiata) fino agli angoli più remoti del continente: ma a chi siamo in mano?
Porre questa domanda non significa lasciarsi trascinare nella furiosa gazzarra di queste ore e di tutte le ore drammatiche dei nostri disastri, con tanta bella gente nei più diversi ruoli istituzionali impegnata a lanciare un po' di fango addosso all'altro ufficio, all'altro ruolo, all'altra competenza. Non è questo il punto, non interessa conoscere la singola colpa: è il sistema globale ad essere scandaloso. Noi italiani qualunque sappiamo benissimo che le prime colpe stanno già sotto casa, dentro i piccoli municipi, dove geometri e assessori palancai guardano soltanto al loro piccolo piano del territorio per lucrare la cresta personale, senza pensare che tante piccole vergogne formano la grande, irreparabile vergogna totale.
Questo l'abbiamo capito da un pezzo, così come abbiamo perfettamente intuito che anche gli apparati romani non hanno molto titolo per fare la predica a nessuno, tanto risultano macchinosi, goffi, cervellotici. È noto e assodato: il poco di buono che riusciamo a combinare, nei livelli della prevenzione e poi dei soccorsi, è solo merito dei singoli eroi, di qualche autorità sensibile e dei tanti volontari calati nel fango fino alla cintura. Certo questa non è un'analisi scientifica, certo è scontata la reazione dei burosauri ai vari livelli, per spiegarci «che non è così semplice». E come no: lo sappiamo benissimo che non è così semplice. Però noi gonzi sappiamo pure che i formidabili apparati tecnici di ultima generazione non possono venirci a raccontare questa tragica ed esilarante verità: l'allarme arriva via fax negli uffici chiusi. No, non ci possono chiedere di accettare nel 2013, dopo decenni di dibattiti e di piani strategici, che le nostre sentinelle ci avvertono all'amatriciana. Stiamo trattando la vita delle persone, non stiamo giocando a tombola. Una volta per tutte: basta, per favore, basta con l'assurdo. L'assurdo sta bene a teatro, non in mezzo ai cataclismi. Noi invece l'adottiamo come metodo universale: più le questioni sono serie, più siamo assurdi. Ma vogliamo dirlo? Qualcuno, da qualche parte, ha pensato di affidare la sicurezza nelle varie Regioni a strane entità chiamate «Centri funzionali decentrati». Noi siamo in queste mani. Siamo in balìa di cervelli che pensano, organizzano e si esprimono in questo modo terrificante. Se la loro efficienza, la loro logica, la loro concretezza è pari al lessico, non c'è proprio la minima speranza di salvarci. Che venga il tifone, il terremoto o la siccità. E la chiamano semplificazione.
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di Cristiano Gatti
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