La sfida del nuovo governo è spezzare l'austerity dell'Ue

La timida ripresa certificata dall'Istat non basta per far ripartire il Paese. Nel semestre di presidenza europea l'Italia dovrà negoziare riforme in cambio di vincoli meno rigidi

La sfida del nuovo governo è spezzare l'austerity dell'Ue

Nei prossimi giorni il nostro paese avrà un nuovo governo: il quarto in due anni e mezzo e il terzo non eletto dal popolo, dopo l'esecutivo tecnico di Mario Monti e quello delle larghe intese di Enrico Letta. La domanda da porsi è: qual è la congiuntura economica in cui il nuovo governo si troverà a lavorare? La ripresa c'è o non c'è? E se c'è, è abbastanza intensa da riuscire a cancellare dalla memoria degli italiani la recessione degli ultimi 2 anni? I dati Istat di venerdì lasciano intravvedere qualche lumicino di speranza. Ma se messo a confronto con i dati degli altri paesi Ue, dell'Eurozona nel suo complesso e soprattutto di Inghilterra, Stati Uniti e Giappone, quel +0,1% (in realtà un +0,08% arrotondato per eccesso) di crescita del Pil italiano nel quarto trimestre 2013 diventa poco significativo. Anzi preoccupante. Perché dimostra che l'Italia cresce a un ritmo pari a 1/3 di quello dell'area euro e che quel timido segno più davanti alla variazione del Pil poco dipende dall'andamento dell'economia nel nostro paese (nessun miglioramento strutturale), mentre è l'effetto «trascinamento» della crescita dei paesi esterni all'area euro e della politica monetaria espansiva delle banche centrali mondiali. Il tessuto economico e sociale italiano resta distrutto dalla crisi e ingessato dalle regole. A dimostrazione che le cure «sangue, sudore e lacrime» imposte all'Italia dall'Europa a trazione tedesca (con la connivenza del presidente della Repubblica e dei governi che per suo volere si sono susseguiti alla guida del paese) sono servite a ben poco, anzi hanno peggiorato la situazione.

Il doppio sforzo richiesto al nuovo governo che, tra l'altro, nel giro di pochi mesi si troverà a guidare il semestre di presidenza dell'Unione europea, quindi, è quello di cambiare l'impostazione della politica economica europea e di cambiare la strategia di politica economica sbagliata adottata dall'Italia su imposizione delle istituzioni europee, passive ai diktat tedeschi. Se anche la profonda recessione dell'economia italiana può considerarsi tecnicamente finita, i suoi effetti persistono. Citando Confindustria: l'Italia ha patito un grave arretramento ed è diventata più fragile, anche sul fronte sociale. Rispetto al 2007 il Pil totale è diminuito del 9,1% e quello pro-capite dell'11,5%, cioè di 2.900 euro a testa, tornando ai valori del 1996. La produzione industriale è scesa in termini fisici del 24,6%, ai livelli del 1986. Le famiglie hanno tagliato 7 settimane di consumi, vale a dire 5.037 euro in media all'anno. E le persone a cui manca lavoro, totalmente o parzialmente, sono 7,3 milioni, 2 volte la cifra di 6 anni fa. Anche i poveri sono raddoppiati, superando i 4,8 milioni. Infine, il risparmio delle famiglie è al minimo storico e si susseguono le chiusure di imprese. Rileggendo i dati Istat ed Eurostat di venerdì viene fuori che quel +0,1% in realtà è un +0,080% arrotondato per eccesso. Nulla in confronto al +0,7% del Regno Unito, +0,4% della Germania, +0,3% di Francia e Spagna, +0,8% degli Stati Uniti. Viene fuori che se pure nel quarto trimestre 2013 una leggera crescita del Pil c'è stata, altrettanto vero è che rispetto allo stesso trimestre del 2012 la nostra economia si è contratta dello 0,8%, mentre il Regno Unito è cresciuto del +2,8%, la Germania del +1,4%, la Francia del +0,8% e gli Stati Uniti del +2,7%. Infine, viene fuori che, considerando l'intero anno 2013, il Pil è diminuito complessivamente dell'1,9%.

Il primo sforzo: cambiare l'Europa
Il governo, sfruttando al meglio il semestre di presidenza dell'Ue, dovrà cambiare la politica germano-centrica dell'austerità e del rigore cieco e imboccare la strada della ripresa e dello sviluppo, con un lieve allentamento delle politiche economiche restrittive nell'Eurozona, per esempio scambiando flessibilità sui parametri del rapporto deficit/Pil con riforme, attraverso i cosiddetti contractual agreements attualmente in discussione in sede europea. Nota maliziosa: un riconoscimento implicito, questo, al fatto che le riforme costano, come sa la stessa Germania, che sforò il tetto del 3% nel 2003 per riformare il mercato del lavoro e il welfare e per ridurre la pressione fiscale.
L'economia europea ha bisogno anche di una nuova politica monetaria. L'euro è troppo forte e danneggia le nostre esportazioni. Oggi il rischio non è l'inflazione, ma la deflazione. Ecco perché c'è bisogno di una banca centrale che abbia poteri analoghi a quelli della Federal Reserve americana e delle altre principali banche centrali mondiali. Il nostro paese dovrà favorire un processo riformatore volto ad attribuire alla Bce il ruolo di prestatore di ultima istanza.

Il secondo sforzo: cambiare l'Italia in Europa
La chiave non è poi così difficile da ricercare. Sono le 6 raccomandazioni che ci ha fatto la Commissione europea quando è stata chiusa la procedura di infrazione per deficit eccessivo lo scorso giugno (portare a termine la riforma della Pubblica amministrazione; migliorare dell'efficienza del sistema bancario; riforma del mercato del lavoro; riduzione della pressione fiscale; liberalizzazione delle public utilities; sostenibilità dei conti pubblici) e per le quali l'Europa non perde occasione di ricordarci che dallo scorso giugno il governo in carica non ha fatto nulla. Tempo passato invano. Possiamo, invece, realizzarli, senza conseguenze negative in termini di credibilità sui mercati internazionali, se nell'ambito dei (già citati) contractual agreements negozieremo con la Commissione europea le risorse necessarie per l'avvio di riforme volte a favorire la competitività del «sistema Italia», che aumentino la produttività del lavoro e di tutti i fattori produttivi, e che contemplino la riduzione della spesa pubblica e la riduzione della pressione fiscale. Riforme che riporteranno finalmente il nostro paese su un sentiero virtuoso di crescita, condizione fondamentale per la sostenibilità dei conti pubblici nel lungo periodo. L'Italia ha il dovere di farlo. E se sarà interlocutore forte, serio e credibile, e nella definizione di questi «contratti bilaterali» con la Commissione presenterà programmi chiari, articolati e definiti nei costi e nei tempi, riuscirà a fare le riforme senza venir meno al rigore e alla sostenibilità dei conti pubblici: quello che i mercati vogliono. Il paese tornerà, pertanto, a crescere, con regole nuove, moderne, competitive. Un vero rinnovamento. Un vero cambiamento. Un vero miglioramento. In poche parole: una rivoluzione.


E al presidente del Consiglio in pectore diciamo: Ma sei sicuro di avere il consenso, la legittimazione democratica, la forza politica, la spinta morale per riuscirci? Qui si parrà la tua nobilitate. Noi non ti faremo nessuno sconto, e noi non avremo alcun pregiudizio.

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