Sofri parla dell'attentato di Piazza Fontana Ma tace sulle sue colpe

Adriano Sofri ricostruisce l'attentato. Ma è un censore stonato di una strage controversa

Sofri parla dell'attentato  di Piazza Fontana Ma tace sulle sue colpe

Adriano Sofri, lo sappiamo da tempo, non ha alcuna riluttanza a inoltrarsi in tematiche che per uno come lui, condannato quale coomicida del commissario Luigi Calabresi, dovrebbero essere impercorribili. Discetta di tutto, impartisce lezioni di moralità a chiunque, politico o non, gli appaia colpevole di malefatte. In un libro, La notte che Pinelli ha voluto tempo fa ricostruire la fine dell’anarchico mite «buttato giù da una finestra della questura di Milano - Lotta continua dixit e un folla di intellettuali postumamente confermò - da Luigi Calabresi: commissario torturatore». Il film di Tullio Marco Giordana Romanzo di una strage, presentato recentemente, offre adesso a Sofri - opinionista ma anche protagonista - l’occasione per imbastire una polemica acre.

La pellicola non gli è piaciuta. Non gli è piaciuta anche se recepisce i «fondamentali» della sinistra nel giudizio sulla tragedia di 43 anni or sono. L’accanimento della polizia nei confronti dell’innocente Valpreda, i complotti neofascisti, i servizi deviati, la politica distante e anestetizzante - con l’eccezione di Aldo Moro - insomma gli ingredienti d’una verità che forse s’avvicina alla verità vera, ma che è viziata dal partito preso, dalla voglia d’una possente mobilitazione antifascista, ci sono tutti. Ma, ancor più che con la ricostruzione di Tullio Marco Giordana, Sofri ce l’ha con un libro inchiesta dal quale il regista ha attinto largamente le sue tesi. Il libro si chiama Il segreto di piazza Fontana, l’autore si chiama Paolo Cucchiarelli.

Sul web Adriano Sofri ha dedicato nientemeno che 132 pagine alla confutazione delle settecento pagine di cui consta l’opera presa di mira. Secondo Cucchiarelli - del quale conosco il saggio, è giusto precisarlo, solo in riassunto - la realtà dell’attentato fu particolarmente complessa. Due i criminali che posero non la borsa ma le borse con l’esplosivo nella Banca dell’Agricoltura. Un anarchico, con un ordigno di scarsa potenza, e un neofascista con un ordigno micidiale. Dunque due borse, due dinamitardi arrivati in piazza Fontana con due taxi diversi, tutto doppio. Contro questa teoria del doppio Sofri si scaglia puntigliosamente indicando errori, confusioni, omissioni. Magari in più d’un caso con ragione. Nella pubblicistica sulla strage di Milano - rigorosamente di sinistra, almeno quella più nota - l’accavallarsi e l’inseguirsi delle accuse, delle illazioni, degli scambi di persona disorienta ogni persona sensata. In un romanzaccio mai approdato a conclusioni davvero convincenti - e invece costellato d’assoluzioni per tutti - ricercatori interessati o disinteressati ritengono di possedere la soluzione del mistero. Vedono ciò che numerose procure e numerose corti d’Assise - tutte corrotte e complici? - non sono state in grado d’accertare.

Ciò che mette a disagio, nell’atteggiamento di Adriano Sofri, non è la contestazione a Cucchiarelli. È l’implicita o esplicita contestazione di tutto ciò che la giustizia ufficiale ha fatto. Adriano Sofri non mette soltanto in discussione un’inchiesta che discutibile magari è, mette in discussione, in toto, la giustizia che l’ha condannato. Rimprovera a Giordana l’insistita citazione di quegli «io so» di Pasolini seguiti dalla curiosa postilla «ma non ho le prove né indizi». Insomma a Sofri e Giordana bisogna credere anche se mancano prove e indizi. Oltretutto il Cucchiarelli ha avuto il torto di scrivere che in piazza Fontana «Lotta continua rimane sullo sfondo ma c’è». Non sta bene a Sofri l’accenno a coincidenze e connivenze degli opposti estremismi. Soprattutto gli preme di affermare che a quel sangue Lotta continua era estranea, non c’entrava, e anche al sangue che sarebbe venuto dopo. Eppure proprio Sofri aveva ammesso che il magniloquente assalto al cielo della fine degli anni Sessanta è finito nel sangue e nella compromissione.

Per una cosa dobbiamo comunque essere grati a quest’ultimo prodotto della grafomania di Sofri: ossia per la

citazione di quanto disse il compagno Mauro Rostagno nel ventennale del ’68 e poco prima della fine: «Meno male che abbiamo perso». Confessione sconsolata e terribile. Sofri aggiunge «sono d’accordo». Non ce ne siamo accorti.

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