Sul lavoro un passo avanti e due indietro

P romesse da marinaio. Questo è il motto che si addice a Matteo Renzi. Si attaglia specialmente al tema principale, quello del Jobs Act, ovvero legge per creare posti di lavoro. Renzi aveva promesso una legge rapida su tale materia: cosa quanto mai opportuna dopo tanti indugi, onde avere più crescita e più benessere e per poter dare occupazione ai giovani senza (...)

(...) togliere il diritto al lavoro per gli anziani. Ma il Jobs Act che ora viene discusso in commissione in Senato non è un decreto legge, né un disegno di legge, è un disegno di legge delega, in cui si fissano i criteri che dovranno essere adottati per le leggi o decreti attuativi, che da esso nasceranno.
Il primo decreto attuativo, quello sui contratti a termine, che non era certo rivoluzionario (si limitava a rimettere alcune flessibilità nel suo uso tolte dalla legge Fornero nel 2012) è stato varato, prima della discussione del disegno di legge del Jobs Act, per esplorare sino a che punto il Pd sia con Renzi. Alla Camera il decreto è stato stravolto dal Pd, che ivi ha la maggioranza assoluta, grazie al premio di maggioranza. Al Senato c'è stato un rattoppo parziale, che ha fatto arrabbiare la Camusso. Ma gli emendamenti sono stati approvati, a causa dei voti di Forza Italia. Ora il testo è stato approvato ieri alla Camera. Per questo pezzettino, dunque, un parto laborioso.
Tutti gli altri provvedimenti nascituri stanno nella legge delega in attesa che essa sia approvata. Ma chi credesse che si tratti di provvedimenti rivoluzionari, miranti a orientare i contratti di lavoro ai principio di libertà, produttività, collaborazione nell'impresa fra dirigenza e addetti, andrebbe deluso. Infatti la legge delega, per il tema centrale dei nuovi contratti flessibili è assai vago e poco coraggioso. Il testo dice che il governo dovrà «individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l'effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, anche in funzione di eventuali interventi di semplificazione delle tipologie contrattuali». Ciò «anche per l'introduzione, eventualmente in via sperimentale, di ulteriori tipologie contrattuali volte a favorire l'inserimento nel mondo del lavoro, con tutele crescenti per i lavoratori coinvolti». Ed ecco spuntare, alla fine di questo vago testo, la famosa concertazione con le parti sociali, che Renzi diceva di voler bandire. Infatti si dovrà attuare «l'introduzione eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile a tutti i rapporti aventi a oggetto una prestazione di lavoro subordinato, previa consultazione delle parti sociali».
Dunque questo mentre il nuovo tipo di contratto a tutele crescenti, cioè che da temporaneo tende a stabilizzarsi, non viene definito, in cambio di ciò verrà stabilito il salario minimo a livello nazionale, previa concertazione, con una norma di diritto pubblico generalmente valida. Il salario minimo non si accompagnerà alla libera contrattazione dal basso a livello aziendale, fra lavoratori e imprese, ma sarà stabilita a livello nazionale, con un nuovo irrigidimento del mercato del lavoro. E anche il piccolo passo avanti che Renzi fa con la proposta di contratto di inserimento a tutele progressive risulta sfigurato dalla concertazione per un salario minimo deciso a livello nazionale.
Il concetto che i contratti di lavoro debbano appartenere al diritto privato, non al diritto pubblico, anche se sono contratti collettivi, non sfiora Renzi minimamente. Eppure Renzi ha fatto aderire il Pd ai socialdemocratici europei, i quali hanno introdotto mediante la coalizione con i popolari, in Germania, il contratto di lavoro aziendale e quello individuale di diritto privato.

Ma tutto questo sta in una legge delega, che ha bisogno di essere discussa per poi essere approvata e partorire i decreti delegati, sottoposti alla concertazione. L'unica cosa che Renzi sa fare sul serio sono le nuove imposte. Francesco Forte

segue a pagina 12

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