Il tetto anti-spread non ci salverà da solo

Altro che seminari sulla crescita. La partita dell'Italia si gioca in Europa. E in Europa, una volta tanto, la Buba ha ragione. Ha ragione a non volere che la Bce usi il meccanismo dei tetti per tenere sotto controllo gli spread.
Dopo il 26 luglio - quando a seguito della dichiarazione del presidente della Bce, Mario Draghi, le Borse europee avevano chiuso in grande rialzo e gli spread erano diminuiti - e il 2 agosto - quando mercati e spread avevano aperto speranzosi in vista della riunione del Consiglio direttivo della Banca centrale europea, ma poi chiuso in grave ribasso - l'ultima giornata calda sui mercati è stata il 20 agosto, il giorno dell'ennesimo conflitto tra Bundesbank e Bce. La mattinata (...)

(...) era cominciata con le indiscrezioni di Der Spiegel, secondo cui la Bce stava elaborando un piano di acquisto diretto di bond sovrani dei Paesi sotto attacco speculativo qualora gli spread tra i titoli di questi Stati e il Bund tedesco avessero superato una soglia (segreta) prefissata. A questa notizia fece seguito il giudizio tranchant: «molto problematico», del portavoce del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, e la netta presa di posizione della Bundesbank, che sosteneva che l'acquisto di titoli di Stato da parte della Bce avrebbe comportato rischi significativi di stabilità. Tanto più che - sempre secondo la Bundesbank - decisioni sulla potenziale condivisione dei rischi di solvibilità in Europa dovevano essere prese dai governi e dai Parlamenti, non dalle banche centrali. Chiusa la polemica una nota ufficiale dell'Eurotower, in cui si affermava l'ingannevolezza delle notizie diffuse. Meglio così. Immediato l'impatto, però, sui mercati: Piazza Affari in territorio negativo (-1%) e azzeramento dei progressi dei giorni precedenti in termini di spread.
Questa volta, però, la Buba ha perfettamente ragione. Sono le stesse critiche che erano state fatte, allo scudo anti-spread proposto dal presidente Mario Monti al G20 del Messico il 18-19 giugno avrebbero senso solo se in grado di convincere gli investitori a tornare ad acquistare i titoli di Stato dei Paesi sotto attacco speculativo. In caso contrario, il rischio è che i mercati interpretino tali strategie come fattori di instabilità. Dunque gli investitori potrebbero preferire l'uscita dal mercato piuttosto che scommetterci denaro e il piano finirebbe solo per offrire ai venditori un alibi per accelerare lo smobilizzo di titoli di Stato considerati poco sicuri. Per di più, fra agosto e novembre 2011 la Bce ha già agito con interventi calmieratori ex post, con una spesa di oltre 200 miliardi, spesa rivelatasi inutile, perché ha portato a una riduzione non strutturale degli spread.
Siamo tornati, dunque, apparentemente allo stato confusionale di fine giugno. Alla polemica di allora sull'automatismo dello scudo si aggiunge oggi il tema del tetto, che, secondo le ultime teorizzazioni, dovrebbe essere, segreto e variabile, di periodo in periodo, di Paese in Paese, e dovrebbe operare sulla base di risorse anch'esse segrete. Tanti segreti, degni di Pulcinella, che alla fine non servirebbero a nulla. Mettere un tetto agli spread crea più problemi di quelli che vorrebbe risolvere.
Sembra appurato che l'intervento dell'Efsf (futuro Esm) debba essere richiesto dagli Stati. Ma, se l'intervento deve essere richiesto, che senso ha la segretezza? Gli acquisti, inoltre, sarebbero sempre e comunque sul mercato secondario e apparentemente si continuerebbe ad affrontare a valle e non a monte il problema. I tetti non servono a nulla, anzi. Molto meglio usare il metodo della predeterminazione secondo una precisa curva di décalage concordata tra gli Stati, le istituzioni europee e la Bce, avendo preliminarmente fatto un'anamnesi seria e responsabile degli spread stessi ed avendo individuato rendimenti di equilibrio, sostenibili nel lungo periodo.
L'anamnesi dovrebbe intanto riguardare il passato. Perché, se i mercati hanno sempre ragione, avevano ragione anche nei primi 10 anni dell'euro, quando i rendimenti dei titoli dei debiti sovrani erano rispettivamente in media del 3% contro l'attuale 1,5% in Germania, attorno al 4% contro l'attuale 6% in Italia e attorno al 5% contro l'attuale 7% in Spagna, nonostante i fondamentali di finanza pubblica di questi ultimi Paesi non fossero più virtuosi di adesso, anzi. Bel paradosso! Spiegabile solo con il fatto che la crisi è in gran parte frutto di speculazione, piuttosto che di un effettivo demerito di credito degli Stati.
Quando mai in Europa, si è tentata un'analisi seria della crisi? A nostra memoria mai. Il che non solo è paradossale, ma è politicamente suicida. Prescrivere terapie senza diagnosi, come è stato fatto sotto la guida di una Germania sempre più arrogante, è stato semplicemente folle.
Lo spread si può dividere in due parti: la prima dipende direttamente dal merito di credito di ogni singolo Stato, mentre la seconda è relativa al cosiddetto premio di reversibilità della moneta che opera nell'area presa in considerazione. Nel nostro caso, il rischio di breakup, cioè di fallimento dell'euro, legato all'architettura imperfetta della moneta unica e/o alla mancata capacità delle istituzioni europee di rispondere agli attacchi speculativi. Sempre nel caso dell'euro, questa seconda componente incorpora una terza variabile: l'effetto fuga degli investitori dai titoli del debito sovrano dei Paesi sotto attacco verso il Bund tedesco, considerato sicuro. Si vede ancora più nitidamente come la logica stupida dei tetti attribuita alla Bce non abbia alcun senso: con il ricorso ad essi si abbasserebbe momentaneamente la febbre. In presenza di una persistente infezione, pronta a rimanifestarsi ogni volta più virulenta di prima.
Più che affidarsi a scudi, ciascun Paese dovrebbe determinare una propria curva virtuosa di décalage dei target massimi dichiarati dei rendimenti dei titoli di Stato, in maniera coerente e coordinata con tutte le istituzioni europee, i fondi di stabilità europei (Efsf, futuro Esm) e la Bce.
Con questa suddivisione dei compiti e specializzazione degli obiettivi, le risorse a disposizione di tutti gli attori diventano sufficienti e credibili per contrastare la speculazione e, soprattutto, una strategia di tal fatta diventa credibile nei confronti delle opinioni pubbliche nazionali. Esattamente il contrario della debolezza dimostrata finora dai policy maker dell'eurozona. Soprattutto che nessuno lucri, come ha fatto la Germania in quest'ultimo anno sulle disgrazie altrui, in gran parte prodotte dalla cattiva costruzione dell'euro e dalle impotenze della Bce. La predeterminazione di target nelle strategie di politica economica funziona, perché responsabilizza tutti gli attori. Lo scorso settembre ha fatto qualcosa di simile anche la Banca nazionale svizzera, con lo scopo dichiarato di frenare l'eccessivo apprezzamento del franco nei confronti dell'euro.
La predeterminazione dei rendimenti massimi è l'antidoto contro le aspettative che si autoavverano (self-fulfilling) dei mercati, perché in grado di stabilire sentieri alternativi virtuosi sui quali far convergere volontà politiche e risorse. Piuttosto che subire le aspettative della speculazione, la predeterminazione costruisce invece percorsi alternativi di successo. Si tratta di predeterminare, per un periodo iniziale di riavvio di un ciclo virtuoso, i rendimenti massimi dei titoli di Stato considerati accettabili, per poi, sulla base delle reazioni dei mercati ridisegnare di volta in volta obiettivi sempre più ambiziosi. Target così definiti: mobili, decrescenti, specializzati, sequenziati tra aste e misure di accompagnamento sul mercato secondario prima e dopo le aste, consentono di governare l'intero sistema con meccanismi credibili, trasparenti, forti, rispetto ai quali diventa anche possibile chiedere la collaborazione di altre banche centrali, per esempio la Federal Reserve, che è in procinto di lanciare il suo terzo quantitative easing, con cui avviare strategie di giochi cooperativi di lungo periodo. Si tratta di calcolare il giusto angolo di rientro nell'atmosfera della fisiologia dei mercati come le navicelle spaziali: il giusto angolo di incidenza per non rimbalzare e non bruciarsi. Una volta definito questo angolo, la curva si forma da sola, in sintonia con i mercati e non più in conflitto.
La predeterminazione avrebbe in sé la sua virtuosità, perché manifestazione immediata e visibile delle riforme, dei compiti a casa e della responsabilità e solidarietà europea, al contrario della passività deresponsabilizzante del meccanismo perverso del tetto. La predeterminazione, inoltre, è politicamente forte, perché educa gli attori, chiede loro coerenza, chiede trasparenza. Infine, la predeterminazione potrebbe addirittura piacere sia alla Bundesbank sia ad Angela Merkel, perché sa di rigore e severità. Il governo italiano farebbe bene ad adottare da subito questa strategia, anche autonomamente, facendosene promotore in Europa. Finalmente si comincerebbe ad affrontare di petto la speculazione. Alla faccia di chi, in Germania, vuole usare la crisi finanziaria per vincere, dopo averne perse due, la sua terza guerra mondiale.

segue a pagina 8

di Renato Brunetta

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