«Io che ho visto Owens vi dico: avrebbe battuto pure Bolt»

Guarda, e agli ultimi dieci metri si regala il colpo di reni. Quello che ai suoi tempi si diceva: buttarsi sul filo di lana. E che gli ha fatto vincere un bel po’ di sprint e due bronzi da non scordare: terzo agli europei di Oslo ’46 (100 metri) e terzo in staffetta alle olimpiadi di Londra ’48. Quel rush gli è rimasto dentro, lo fa anche oggi che ha appena compiuto 89 anni e sta seduto in poltrona davanti alla tv o sulla tribuna di uno stadio. È un gesto nemmeno tanto impercettibile, un eterno sprigionar di forza e reattività. Bellissimo e romantico.
Dici Carlo Monti e sai chi è: un grande atleta, poi giornalista, dirigente sportivo e, scrive la dizione del Comune, «Cittadino benemerito della città di Milano». Ieri si è concesso una chicca. Al compir degli 89 anni ha presentato il suo ultimo libro: I cento anni della cento chilometri di marcia. Un’idea partita quattro anni fa. «Scrissi 18 righe il primo giorno. Al terzo finalmente sono andato». Ma c’è qualcosa che non va.
Caro Carlo, com’è possibile? Un patriarca del tempo breve che si dedica ai cultori della fatica lunga e inesorabile?
«È la legge del contrappasso: noi sprinter eravamo quelli che correvano meno, loro quelli che camminavano di più: ore e ore. Che fatica gareggiare per 50 o 100 km.! Eppure che medagliere: mi ha colpito. La 100 km ha chiuso la sua storia per colpa del traffico e degli stranieri che ormai vincevano sempre».
Chiaro, ma voi sprinter...
«Noi sprinter, storicamente, siamo quelli che litigano sempre, sta scritto nel nostro stemma. Io ho perso un titolo di campione d’Italia, perché ho mandato a quel paese uno starter. Sergio Ottolina indispettì Berruti, quando spedì in giro le partecipazioni di nozze di Livio, senza che ci fosse fidanzata o intenzione di sposarsi. Finì a schiaffoni una storia fra Berruti e i fratelli di Mennea. Oggi Cerutti e Collio nemmeno si guardano in faccia».
Volando più alto: qual è stato il miglior velocista di sempre?
«Jesse Owens, poi gli altri».
Carl Lewis?
«Grande atleta, ma in quel periodo girava troppo doping. Non credo che gli altri vadano in pasticceria e uno stia a guardare. Spero che Bolt sia più pulito».
Bolt e Owens, chi vincerebbe?
«Dico Owens, non sembrava mai toccare la pista. Noi correvamo su piste dove non potevi spingere, il terreno frenava. Eppure lui ha corso più volte in 10“2».
Ma Bolt corre come il vento...
«È un po’ troppo lungo di gambe, sarebbe uno sprinter più forte se fosse 5 cm più basso. Avrebbe più spinta e i 100 si vincono sempre negli ultimi dieci metri».
Il più grande atleta italiano?
«Pino Dordoni. Vedi? Scelgo un marciatore. Più di Berruti, Mennea o Consolini. Ma era litigioso come uno sprinter. Non sopportava arrivare dopo. Intendo secondo, non 5° o 6°. Fallì alle Olimpiadi di Londra ’48 (9° nella 10 km ndr.), così diceva di non aver nemmeno partecipato. Lo chiamavano il Conte. Per dirne l’orgoglio: l’anno dopo vinse la 100 km, poi l’europeo della 50 km, ai Giochi del ’52 l’oro nella 50».
E per arrivare a Londra, tu e gli altri?
«Rigorosamente in treno fino a Calais, poi il piroscafo, poi ancora treno. Ritiro in certe baracche che gli inglesi avevano preparato per i Giochi. Pensa che, ai suoi tempi, Mennea non voleva mai andare in albergo con gli altri».
Pochi danari?
«Per pagarmi le tasse all’università di chimica, spendevo 2000 lire, cioè tanto, cantavamo “se potessi avere 1000 lire al mese”. Bene, riuscii a farmi ingaggiare da una società di Pavia che mi pagò tutto, compreso la mensa e il tram».
Non diventavate ricchi...
«Eppure...

Fernando Altimani, marciatore che vinse il bronzo ai Giochi di Stoccolma, cominciò lavorando in tipografia alla Gazzetta dello sport. E così Ugo Frigerio, che amava le belle ragazze e vinse 2 ori olimpici. Ma Altimani divenne padrone di uno stabilimento tipografico. Vedi i marciatori... La filiale Fiat di Mennea non andò così bene».

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