Io in tv, bersaglio degli alfieri del pensiero unico

Ho visto giovedì sera AnnoZero, dedicato alle proteste contro la riforma scolastica di Mariastella Gelmini. Lo schema santoriano era quello di sempre, lo conosciamo. Ma la trasmissione - nella quale il nostro Nicola Porro ha fatto ottima figura per razionalità e civiltà - me ne ha ricordato un’altra di molti anni or sono nella quale fui personalmente coinvolto. Il programma d’allora si chiamava Samarcanda. E anche allora - come oggi - Santoro amava i collegamenti con vocianti assemblee giovanili: risuonanti di slogan settari e banalmente ripetitivi. Il tema della serata mi pare fosse l’università, travagliata dalle solite occupazioni nel corso delle quali apprendisti demagoghi arringavano compagni e compagne dal pugno chiuso.

Noi del Giornale - ma anche altri quotidiani - eravamo sommersi da lettere di studenti e di genitori indignati per la sopraffazione d’una minoranza aggressiva nei confronti della «maggioranza silenziosa». Chi voleva studiare non poteva farlo, gli atenei erano ridotti alla paralisi. Per la puntata di Samarcanda fui invitato in studio da Santoro. Lontano, a Roma e a Palermo, rumoreggiavano folle di ragazze e ragazzi tarantolati dalla furia contro le istituzioni repressive (Berlusconi era di là da venire). Quando i capetti ribelli colloquiavano con Santoro rivendicavano virtuosamente il carattere democratico, pluralista, aperto delle loro iniziative.

Venuto per me il momento d’intervenire, chiesi pacatamente come mai, essendo il movimento democratico pluralista e aperto, tutti nelle assemblee dicessero le stesse cose; e come mai non si vedesse traccia dei tanti che erano di parere opposto. Accadde, nei collegamenti esterni, il finimondo. Fui bersagliato da grida e parolacce. A Palermo risuonò l’invettiva che la sinistra tiene in serbo per queste circostanze: fascista! Tale fu il tumulto che Santoro dovette a un certo punto interrompere i collegamenti.

L’indomani, in una cronaca, Repubblica ammise mestamente che per i dervisci rotanti della contestazione quello era stato un autogol. Rientrato a Milano raccontai a Montanelli - che non aveva seguito Samarcanda - come erano andate le cose. E Montanelli decise che agli sfoghi di quegli invasati dovessimo rispondere con il «fondo» per il giorno successivo. Avrebbe dovuto scriverlo lui, ma non se la sentiva per scarsa conoscenza dei fatti. Sarebbe quindi toccato a me, ma non me la sentivo per essere stato, di quei fatti, protagonista. Concludemmo che l’articolo l’avrei scritto io, e Montanelli l’avrebbe firmato. Il che puntualmente avvenne. Credo che l’espediente non abbia giovato. Fui duro, ma probabilmente non abbastanza. Dovendo polemizzare in mio favore, ma con firma montanelliana, mi trattenni.

Di mano sua Montanelli - quel Montanelli che non poteva soffrire il ribellismo scriteriato dei collettivi studenteschi - avrebbe fustigato ancor più pesantemente.

Da quel tempo lontano quando Michele Santoro m’incontra ricorda ridacchiando che quella sera ho avuto un gran colpo di fama. Me lo dice - abbiamo un ottimo anche se saltuario rapporto - come se dovessi essergli grato per la canea di Samarcanda.

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