Ipocrisia della parità

Questa storia del principio di parità tra accusa e difesa stabilita nell’articolo 111 della Costituzione è totalmente fuori dalla realtà. Chiunque abbia avuto esperienza di tribunali e di processi sa che il pubblico ministero non cerca la verità e non fa alcuna concessione al malcapitato imputato che, se innocente, si trova improvvisamente al centro della morbosa attenzione, se è noto, dei media o, nella condizione di doversi difendere, tra mille difficoltà, se è sconosciuto. La sua vita cambia. Il suo onore e il suo decoro sono messi in discussione. E sempre prevale il dubbio che, se inquisito, abbia fatto qualcosa. Da questo atteggiamento colpevolistico dell’accusa sono derivati negli anni passati suicidi e dissesti psicologici che hanno investito non soltanto le vittime ma anche i loro parenti, creando talvolta disagi insopportabili. Ricordo che nel caso del dottor Caneschi il pubblico ministero chiese l’arresto mentre l’indagato era in rianimazione. Non si contano i casi di persone che hanno patito oltre che l’ingiusta accusa anche l’ingiusta detenzione per essere poi dopo molti anni completamente scagionati attraverso tutti i gradi del giudizio. Il pubblico ministero è tranquillo, non paga, tanto meno se sbaglia, e difende il principio dell’accusa in nome della società che lo delega; l’accusato è coinvolto direttamente, patisce la realtà dell’accusa, si deve difendere e può rischiare tutto. Può perfino pagare anche se innocente. Il pubblico ministero che sbaglia non paga mai: per lui ci pensa lo Stato. Molto comodo questo principio di parità!
Immaginiamo che, come è accaduto, uno sia indagato per un reato infamante, per pedofilia, o per mafia. Dobbiamo lasciarlo nell’incertezza della condanna per un decennio? Per una parte di vita che gli viene rubata e che lo espone al giudizio severo della società, interrompendone i rapporti di fiducia e di lavoro stabiliti nel corso degli anni. Ricordate il caso di Ferdinando Pinto, sovrintendente del teatro Petruzzelli? Dopo lunghissimi processi è stato definitivamente assolto. Ma il suo ruolo sociale, quella che si chiama la sua «immagine», è stato completamente devastato. Il tempo per l’assoluzione ha congiurato contro di lui. Inutile ricordare il caso di Enzo Tortora o, con minore devastazione personale, quelli di Tabacci, Agrusti, Gamberale, Merola, Sabani, Boncompagni, tutti mostri per qualche mese e poi con molta lentezza, quasi mai completamente ricondotti alla normalità di relazioni nel lavoro e nella stessa vita quotidiana. Il giudizio degli uomini più terribile di quello di Dio ancora ci lascia incerti su personaggi come Bruno Contrada e Calogero Mannino. Se l’inquisitore sbaglia, quindi è colpevole, rovina la vita di un uomo, lo sequestra, lo umilia, la sua immagine non è in alcun modo contaminata. Una sorta di immunità, oltre che di impunità, lo accompagna. Più accusa, più è. Il pubblico ministero lo fa di mestiere, l’indagato non fa di mestiere l’indagato. Quale parità? D’improvviso uno passa dalla propria vita a quella di perseguitato, di infamato; e talvolta, come è capitato ad Andreotti, deve assumere questa condizione come un lavoro, deve calarsi nel ruolo dell’imputato. Soltanto in questa condizione vi può essere parità. La quale evidentemente non si può stabilire fra un professionista e un dilettante, fra chi pratica una funzione e chi la patisce, fra chi fa un lavoro per cui è pagato e accusa in nome e per conto della società e chi si trova criminale (questo è lo status di chi è perseguito per un crimine) da un giorno all’altro senza averlo deciso e, come spesso accade, tanto meno praticato. L’assoluzione definitiva in primo grado sdegnosamente respinta dal presidente della Repubblica non persegue la finalità di fissare o compromettere un’impossibile parità, ma semplicemente di limitare il tempo di sofferenza riducendo il danno del marchio di infame nel rapporto con la società. Ha dunque una funzione altissimamente civile, di risarcimento del danno, di reintegrazione della «immagine» in tempi ragionevoli. Chiunque lo sa. Ma l’ipocrisia della «parità» muove i benpensanti. Onore dunque a Vincenzo Siniscalchi, deputato dei Ds che, in controtendenza, sostiene l’opportunità della nuova norma che elimina l’appello in favore dell’accusa e sottoscrive «quel principio generico di civiltà giuridica secondo il quale la pubblica accusa non deve accanirsi in presenza di una soluzione piena di primo grado, una soluzione ottenuta “al di là di ogni ragionevole dubbio”». Nell’appello dell’accusa, che ovviamente ha interesse alla condanna e non alla conferma dell’assoluzione, c’è spesso un accanimento, l’atteggiamento di partito preso di chi deve sostenere una parte, come a teatro.

Ma una cosa è il teatro del tribunale dove il primo attore è il pubblico ministero, una cosa è la vita, dove l’indagato rischia la limitazione della libertà e la perdizione. Attenti colleghi deputati, attento presidente Ciampi a giocare con la vita degli uomini.

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