Islanda, il paradiso in terra è il Paese dove si lavora di più

Islanda, il paradiso in terra è il Paese dove si lavora di più

da Reykjavik

La notizia del «sorpasso» è arrivata nella stagione in cui l’Islanda è usa spegnere la luce. Lo ha deciso una giuria delle Nazioni Unite, convocata in un palazzo della remota Brasilia: l’Islanda è il Paese in cui si vive meglio al mondo. Ciò viene deciso sulla base di un rapporto annuale e per i sei anni precedenti il primato era andato invariabilmente alla Norvegia. Se ora c’è un cambio di leadership è perché sono cresciuti, in Islanda, due indici abbastanza importanti: si guadagna di più e si vive più a lungo. I parametri standard sono appunto quelli della longevità, del reddito pro capite e del livello culturale. Una «pagella» che da tempo riserva vittorie e primati ai Paesi nordici, facendone un Club dei Beati. Islanda, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Svezia sono tutte e sempre fra i primi dieci per quanto riguarda il reddito individuale, la competitività globale, l’«indice di democrazia» e quello di onestà, compilato da altre giurie ma con il risultato quasi identico: Islanda prima, Finlandia seconda poi Norvegia eccetera. Come reddito questa isola di trecentomila abitanti batte nettamente, per esempio, gli Stati Uniti: 52mila dollari l’anno contro 41mila. Come ha fatto questa società gentile e fino all’altro giorno quasi bucolica ed emarginata a diventare una «giovane tigre»? Per esempio lavorando sodo: 50 ore la settimana, un altro mondo rispetto, per esempio, alla Francia che Sarkozy si sforza di liberare dalla tagliola delle 35 ore.
È naturalmente solo un particolare, un dettaglio del nuovo «miracolo nordico», molto diverso da quello che si affacciò attorno agli anni Cinquanta con l’illusione, ma anche con la realizzazione, dello Stato sociale di modello soprattutto svedese, ora profondamente incrinato anche prima che scoppiasse la globalizzazione. L’Islanda, certo, ha molte altre virtù. Per esempio, è uno dei Paesi più «sicuri» della Terra. Ci sono 600 poliziotti in tutto, un terzo dei quali lavorano negli uffici. Sono così pochi, eppure trovano il tempo di annoiarsi. Il motivo: di omicidi, in Islanda se ne verificano in media tre all’anno; e anche i reati minori sono così rari che nelle cronache dei giornali c’è ancora spazio per dare notizia quando una pecora viene investita da un’auto. Il più «famoso» disturbo all’ordine costituito è stato proprio una conseguenza del riscaldamento globale: un iceberg disciolto in Groenlandia è arrivato in un fiordo irlandese senza documenti con un orso bianco in cima. Sono scoppiate lunghe polemiche finché un cacciatore non fu incaricato di abbatterlo. In Isafjördur, un paese di 4mila abitanti, non pochi per le dimensioni nazionali, l’ultimo omicidio risale a diciannove anni fa e ancora se ne parla. Se ne ricorda tutti i dettagli, per esempio, il capo della polizia Sigridur Gudjónsóttir, che è anche la moglie del parroco. Quella islandese è una società piccola, in cui tutti conoscono tutti e il tessuto sociale è molto stretto. Per questo le violazioni non suscitano soltanto disapprovazione ma anche meraviglia. Se da qualche tempo anche l’Islanda ha un suo autore di gialli, Arnaldur Indridason, è perché egli si è dedicato a spiegare che cosa può mai saltare in mente a un assassino. È un esploratore, insomma, non un cronista. Il delitto di Isafjördur, per esempio, fu così poco complicato: una rissa fra ubriachi.
Basta la sicurezza a fare di una terra un Eden? Ci vogliono altri fattori, forse: ad esempio la compattezza culturale, che fino a pochi anni fa era anche etnica. Nessun essere umano aveva calcato quest’isola prima che arrivassero i norvegesi con le loro lunghe navi vichinghe. L’Islanda non ha paragoni anche in questo: unica al mondo, non ha avuto una preistoria, non è esistita prima della scrittura, è nata assieme alla sua letteratura. Sappiamo da fonti contemporanee come si chiamava il primo colono della fattoria che adesso si chiama Reykjavik, in che anno sbarcò, quali confini ebbe la sua farm. Tutto è scritto nella saga, nel Libro degli Arrivi. L’Islanda è un Paese di gracili musei e di immense, esaltanti biblioteche. Per contenere i manufatti del suo passato bastano poche stanze, per le parole della sua inimitabile cultura non è bastato un palazzo: e da qualche anno c’è un edificio nuovo, che invade un’intera isola. Amministratori oculati per il resto, gli islandesi non lesinano quando si tratta delle loro millenarie pergamene. La prima cosa che chiesero, appena diventati indipendenti nel mondo convulso della Seconda guerra mondiale, fu la restituzione delle loro Saghe e della loro Edda, custodite nel tesoro reale di Copenaghen. I volumi preziosi cominciarono a tornare solo nel 1971, imbarcati su una nave da guerra. Erano ancora i tempi in cui il presidente americano Richard Nixon, in occasione di un incontro a Reykjavik con il capo sovietico Leonid Breznev, credette di potersi accomiatare definendo l’Islanda «un pezzo di terra dimenticata da Dio e dagli uomini».
Adesso gli uomini se ne ricordano e le riconoscono primati. Non un riconoscimento da poco per un Paese quello di posto «più desiderabile in cui vivere sulla Terra». L’annuncio è arrivato poco dopo la fine dell’estate di San Martino, appena in tempo prima che l’Islanda spegnesse i lumi della stagione e si richiudesse nei silenzi felpati dell’inverno. Il cielo era ancora acceso nell’autunno avanzato e luci candide, raggi di vero sole, cadevano da drammatiche nuvole fiamminghe su un suolo tenero e spugnoso, su prati di smeraldo in cui passi incidono orme di fango. Adesso si è spenta davvero la luce, tranne che nelle discoteche di Reykjavik, da qualche tempo fra le più famose al mondo. I giorni adesso sono davvero brevi, ma si riempiono bene con le 50 ore di lavoro settimanale. Quanto alle notti, l’Islanda detiene un altro primato: la più elevata natalità in Europa, contemporanea al minor numero di matrimoni. L’Isola dei Beati è pagana? Lo dice la storia, lo spiega una leggenda. Prima ancora dell’anno Mille, nel colmo dell’evo della Fede, del Trono e dell’Altare, nacque qui una Repubblica politeista, radicata nelle istituzioni al punto che i deputati in quello che fu il primo Parlamento del mondo, erano i proprietari dei templi degli dei. La conversione fu rapida e indolore: non la decise una crociata ma un voto di quel Parlamento, che si rassegnò alla inevitabilità di un ritorno alla «normalità costituzionale» dell’Europa del tempo, e dunque il passaggio sotto la corona cristianissima della Norvegia. Ma il passato pagano, dicono, non è mai interamente morto. Al punto che il governo islandese riconosce come culto la «Asatrúarfelagio», organizzazione religiosa custode del pantheon precristiano.
Questa la storia. La leggenda dice che molto, se non tutto, dipende dagli alberi. Dagli alberi che in Islanda a causa del clima non crescono e lasciano liberi licheni e costumi. Che c’entrano gli alberi? C’entrano perché il Paradiso Terrestre era pieno di alberi e da un albero venne giù il serpente che tentò Eva. Qui non ce n’erano e non c’era frutta e non c’erano tentazioni. Non ci fu, dunque il peccato originale. Di conseguenza non ci fu il bisogno di redenzione e dunque non venne il Cristianesimo. Non c’era senso di colpa e pertanto il sesso è libero e numerosi i figli che altrove sarebbero chiamati illegittimi e che qui sono semplicemente figli.


È una leggenda autoctona, che contrasta con le leggende che questa terra ha ispirato agli altri: I Pescatori di Islanda di Pierre Loti, il dialogo leopardiano fra la Natura e un Islandese, i Giganti il romanzo di Alfred Doeblin che descrive tra questi fiordi la fine dell’umanità. Più, e molto più di recente, il protagonista islandese di Pane e Tulipani, con le sue lucide pulsioni di morte. Forse anche lui, adesso, si è convinto e lavora 50 ore la settimana nell’Isola dei Beati.

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