Ma in Italia che fine hanno fatto i neo-con?

A un certo punto sembrava davvero che l’unica cultura possibile per la destra italiana fosse quella dei neocon e dei loro cugini teocon. Le dottrine dei vari Kagan, Kristol, Perle, le produzioni dei think tank repubblicani (parola fino ad allora sconosciuta, ma da allora abusata) arrivavano da noi tramite il Foglio di Giuliano Ferrara, instancabile apostolo italiano del neo-teoconservatorismo. La questione Islam, la crisi dell’Occidente, l’orgoglio della civiltà giudaico-cristiana, la giustificazione machiavellica (grande mito necon) dell’uso della forza, la debolezza dell’Europa (continente di vecchi) rispetto al vigore degli Stati Uniti (nazione giovane). Tutto l’indotto delle infinite discussioni geopolitiche del dopo 11 settembre, che in casa nostra avevano già trovato una voce in Oriana Fallaci, e che sembravano promettere al centrodestra italiano la soluzione dell’eterno cruccio: avere una sua «cultura» di riferimento, per certi aspetti anche un’ideologia (con gli stessi rischi, ma anche con la stessa capacità persuasiva di quella avversaria), la possibilità in breve di poter parlare non più solo alla pancia della gente ma di fornire anche una visione politica generale sui grandi temi, di dare un quadro concettuale dove collocare e ordinare le pulsioni del popolo del centrodestra.
Ora, se negli Stati Uniti ci si interroga sull’estinzione dei neoconservatori, che dire dei neocon nostrani (Marcello Pera, Gaetano Quagliariello, gli altri intellettuali riuniti intorno all’associazione Magna Charta)? La loro debolezza è stata quella degli epigoni. Una teoria nata sostanzialmente per giustificare la politica estera degli Stati Uniti in Asia, e per rispondere all’ossessione per la sicurezza degli americani, non poteva essere trapiantata in Italia troppo facilmente, e l’interesse per la dottrina neocon era destinato a scemare con la derubricazione del problema Iraq a questione di secondo piano rispetto, per esempio, alla crisi finanziaria o alle nuove povertà.
Ma sarebbe affrettato dire che la traduzione italiana del neoconservatorismo non abbia lasciato tracce, per quanto debole come teoria a sé. È successo che le parole d’ordine del neo-teoconservatorismo sono state assorbite dentro coordinate più legate alla sensibilità italiana, slegate dal loro contesto d’origine per essere utilizzate in un quadro meno imperativo. Ma si sono imposte. Come altro spiegare il rilievo della questione etica come grande tema di scontro politico su aborto, pillole contraccettive, eutanasia, se non come un derivato dell’effimera dottrina neocon? Anche sul problema dell’Islam, su quello dell’identità cristiana dell’Europa, sul rischio laicismo, i neo-teocon hanno tracciato la strada, senza però avere le forze per arrivare in fondo.

È così che l’interlocutore dei neocon nostrani (o di quel che ne resta), alla fine, non è più l’America di George W. Bush, ma Benedetto XVI. Anche in questo la parabola del neoconservatorismo all’italiana ha seguito pari pari quella del suo primo interprete, Giuliano Ferrara.

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