Eroi, santi, navigatori e, di recente, soprattutto eredi. Per gli italiani di oggi sono i patrimoni di genitori e nonni a fare la differenza. E a garantire la ricchezza sono, molto più che in passato, testamenti e successioni ereditarie.
Un paio di numeri spiegano tutto: nel 1995 il valore di eredità e donazioni rappresentava l'8,4% del reddito nazionale, nel 2016 la percentuale è praticamente raddoppiata e si arriva al 15,1%. Lo stesso se si guarda al reddito disponibile delle famiglie: nel 1995 il valore delle eredità distribuite ogni anno corrispondeva a una quota del 9,6%, oggi al 18,5%.
Il fenomeno è in qualche modo intuitivo: per semplici ragioni anagrafiche oggi sono le generazioni del boom economico a uscire di scena, quelle che nel periodo d'oro dell'economia italiana hanno messo da parte molto più di quanto avessero fatto le generazioni precedenti, piccoli (e grandi) patrimoni. Adesso tutto, e non è poco, passa a figli e nipoti. Anche in questo caso le cifre aiutano a farsi un'idea: nel 1966 l'italiano medio possedeva un patrimonio di 22mila euro (il dato è stato attualizzato ai valori del 2016). Nel 2006 si è raggiunto il picco di 167mila. Poi la crisi ha colpito duro e nel 2016 la ricchezza individuale è scesa a 141mila. Nonostante le difficoltà dell'economia, si tratta di grandezze di tutto rispetto: il patrimonio delle famiglie italiane è pari a circa 6 volte il Prodotto interno lordo. È uno dei valori più alti al mondo: il 54% è rappresentato da case, il 24% da investimenti finanziari, il 19 da liquidità.
ADDIO RISPARMI
Tutto bene, dunque? Mica tanto. Perché negli ultimi 25 anni è successo anche qualcosa d'altro: «La ricchezza accumulata con i risparmi è calata dal 16% del 1995 al 3,2 del 2016», spiega Salvatore Morelli, economista, ricercatore all'Università di Roma Tre e direttore dello Stone Center della City University di New York. «In pratica la ricchezza che ci si procura da soli risparmiando si è molto ridimensionata rispetto a quella ereditata».
Morelli e Paolo Acciari, funzionario del ministero dell'Economia e delle Finanze, hanno appena pubblicato uno studio per il National Bureau of Economic Research, uno dei più noti centri di ricerca economici americani, sulle eredità degli italiani negli ultimi decenni. I due hanno raccolto le dichiarazioni di successione presentate all'Agenzia delle Entrate e depositate negli archivi della Sogei (la società informatica del Ministero dell'Economia). Per studiare i dati hanno dovuto tener conto dei lasciti sotto una certa quota, che non vengono registrati negli atti amministrativi, e tradurre in valori commerciali i valori catastali degli immobili dichiarati, correggendoli con una serie di indici statistici.
Il risultato dello studio è che nel 2016, ultimo anno per cui siano disponibili i dati, sono passati di mano, per eredità o donazioni, patrimoni per 210 miliardi di euro. L'Italia è il Paese, insieme alla Francia, in cui i trasferimenti ereditari pesano di più in rapporto al reddito nazionale, come si è visto circa il 15%, mentre in Germania e Regno Unito i valori corrispondenti sono intorno al 10.
L'eredità media vale circa 290mila euro, mentre era intorno ai 210mila alla metà degli anni Novanta (ma il picco è stato prima della grande crisi finanziaria, nel 2007 con 330mila). La ricchezza sembra essersi via via concentrata con il tempo: nel 1995 le eredità superiori al milione valevano poco più del 18% del totale di tutti i lasciti, nel 2016 la quota corrispondente è di poco inferiore al 25%.
Il maggior peso di lasciti e testamenti sul reddito nazionale può avere significative conseguenze sul piano sociale ed economico. «Se pesa di più la ricchezza ereditata di quella guadagnata», dice Morelli, «ci possono essere ripercussioni negative importanti sulla mobilità sociale tra le diverse generazioni, che in Italia è già bassa rispetto ad altri Paesi economicamente sviluppati. La stessa cosa si può dire dell'uguaglianza di opportunità».
PIKETTY E IL CAPITALE
Lo scenario, secondo Morelli, è quello dipinto dall'economista francese Thomas Piketty, autore di un fortunatissimo libro, Il capitale nel XI secolo, diventato una sorta di best-seller dell'economia. Piketty ha parlato di ritorno al «capitalismo patrimoniale», tipico del Settecento e dell'Ottocento, in cui a contare non sono le capacità personali ma la dotazione di mezzi e capitali familiari.
Il tema, diventato di recente oggetto di una querelle politico-ideologica, è da sempre dibattuto negli Stati Uniti dove si è tornati a parlare di «effetto Carnegie», il fenomeno teorizzato da Andrew Carnegie, self made man di origine scozzese diventato uno degli uomini più ricchi d'America per le sue attività nel campo delle ferrovie, del petrolio e dell'acciaio. Secondo Carnegie il denaro ereditato finisce per «inibire» capacità e impegno della generazione degli eredi. Lui come molti altri miliardari americani di anni più recenti (vedi anche l'altro articolo in queste pagine) finì per donare gran parte del suo immenso patrimonio non ai discendenti ma a iniziative filantropiche.
SVOLTA IN GIAPPONE
Non solo in America il tema dell'eredità della generazione del boom economico è al centro dell'attenzione. In Germania lo studio recente di uno dei più famosi centri di ricerca del Paese, il Diw, ha fissato in 400 miliardi di euro l'anno la somma che di qui al 2027 passerà ogni anno di mano per successione ereditaria. E il nodo della tassazione delle eredità è stato a lungo fonte di controversie tra i due partiti di governo, socialdemocratici (favorevoli all'aumento delle aliquote per i grandi patrimoni) e i democristiani (contrari).
Un caso a parte è il Giappone: il Paese ha l'età media più alta del mondo e nei prossimi 10 anni si calcola possano passare di mano per via ereditaria circa 5.000 miliardi di dollari. Con il trasferimento di patrimoni di così rilevante entità da una generazione di anziani a eredi di età più giovane e con una minore propensione al risparmio, c'è chi spera in un piccolo boom legato ai maggiori consumi.
Secondo alcune previsioni la svolta ereditaria potrebbe far aumentare il Prodotto interno lordo di circa il 10% in più rispetto alle stime correnti, sbloccando così una crescita per molti anni frenata dalla cautela nella spesa dei giapponesi.
Quanto all'Italia, lo studio appena pubblicato sembra fatto apposta per dare ragione alle tesi di Luca Ricolfi, sociologo, professore universitario e presidente della Fondazione Hume. In un libro uscito di recente, La società signorile di massa, Ricolfi ha descritto un Paese che vive largamente al di sopra dei propri mezzi, senza troppe speranza di risalire la china. In larga misura, è la tesi, a sostenere i consumi «signorili» di un'economia la cui produttività da tempo non cresce e in cui i «non lavoratori» superano chi un lavoro ce l'ha, è proprio la ricchezza accumulata dalla generazione dei padri e dei nonni.
Questi ultimi hanno approfittato di condizioni irripetibili, che sono per di più venute meno sin dagli anni Ottanta del secolo scorso. Per il futuro invece, dice il sociologo, il pericolo incombente è quello di una «argentinizzazione lenta», una progressiva disgregazione del tessuto economico.
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