Joyce esplora le tortuosità del matrimonio

Aridea Fezzi Price

da Londra

Sembra scontato che i grandi narratori non siano tagliati per il teatro, Henry James pubblicò quattro pièces ma solo una, Guy Domville, andò in scena e fu un clamoroso disastro, lo stesso toccò a Scott Fitzgerald, a Ivy Compton Burnett a dispetto del dialogo scintillante dei suoi romanzi, a Graham Greene, a Jack Kerouac che si vide rifiutare la sua Beat Generation da Marlon Brando. È vero anche il contrario, l’elenco di commediografi di successo ma dilettanti del romanzo è infinita, Beckett fra questi. Se Cecov è un’eccezione, Joyce sembrava confermare la regola. Il suo unico dramma Exiles scritto nel 1915, fu subito rifiutato a Dublino dall’Abbey Theatre fondato da Yeats il quale liquidò opera e autore perché non in sintonia con il popolo d’Irlanda. Fu respinto anche a Londra perché «morboso e troppo vicino al peggior Strindberg» e anche Bernard Shaw lo giudicò osceno, mentre a Zurigo la compagnia che Joyce stesso aveva formato preferì allestire Oscar Wilde. Infine debuttò a Monaco nel 1919, stroncato da critici e psichiatri che diagnosticarono un rapporto omoerotico fra i due protagonisti maschili in cui l’autore, scrivevano, realizzava «i suoi impulsi repressi ma urgenti». Solo nel 1970, grazie alla regia di Harold Pinter, la pièce conobbe un certo successo in Inghilterra. Ma poi nuovamente il silenzio fino al brillante allestimento in scena in questi giorni al National Theatre (fino al 26 ottobre) per la regia di James Macdonald che sottolinea il suo ruolo di ponte fra Ibsen e il dramma moderno.
Autobiografica ed erotica, scritta fra la stesura del Ritratto dell’artista e Ulisse, Esuli è un’analisi delle bizantine complessità del matrimonio - lo scrittore Richard Rowan di ritorno a Dublino decide di fare un esperimento istigando la moglie Bertha a tradirlo con l’amico Robert Hand che forse lui stesso inconsciamente desidera. Ma, forse, Richard è anche un debole che ha bisogno di una donna più forte di lui la cui presenza però è un costante ricordo della sua debolezza e per riaffermarsi deve in qualche modo annientarla. Joyce scrive pensando a Ibsen che idolatrava, ma lo supera nella sua esplorazione dei tortuosi meandri del sesso, del «desiderio triangolare», suggerendo anche, con sorprendente modernità, che un matrimonio sta in piedi solo se nel quadro c’è una terza persona.
Tradizionale nella struttura, il dialogo formale ed eloquente non manca di passaggi prolissi risolti brillantemente nelle belle scene in tinte e costumi edoardiani di Hildegard Bechtler che riproducono l’atmosfera di un salotto dublinese d’epoca. Ottimi e incisivi gli attori, Dervia Kirwan in Bertha un misto di astuzia e vulnerabilità, di un fascino insidioso Adrian Dunbar nell’amico del marito, masochista e manipolatore Peter McDonald in Rowan resta inscrutabile, in una pièce già densa di mistero.

«Non voglio sapere ma credere», dice mentre cerca di giocare il mistero dell’amore con quello della fede. Il finale irrisolto sottolinea come Joyce anticipasse Pirandello, Beckett e Pinter lasciando agli spettatori la scelta di decidere.

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