KEYSERLING La favola del principe leone

Si può prenderla molto, molto alla lontana. Raccontarla dai tempi in cui, nelle case della sua famiglia - case? tenute, magioni, manieri: per fughe di saloni di castelli e sequele di porticati in una corte - si aggiravano Georg Hamann, il mago del Nord, e Immanuel Kant, il principe della ragione: ospiti fissi dei suoi parenti di Königsberg. Si può dire del bisavolo, amico confidente e consigliere di Federico il Grande di Prussia, o del bisnonno legato dello Zar di tutte le Russie, per il quale Johann Sebastian Bach compose le Variazioni Goldberg al solo scopo di variare la monotonia delle sue notti insonni.
Salendo tra i rami del grande albero dinastico cresciuti oltre le gemme del Nostro - che è della generazione e della cerchia di Franz Wedekind e Max Halbe, Rudolf Kassner e Rainer Maria Rilke, frequentati nella Monaco del quartiere Schwabing - s’incrocia il nipote Hermann, il figlio del fratello, pensatore vagabondo e giramondo partito per le Indie, giunto in Cina e Giappone, tornato attraverso l’America nel cuore della Mitteleuropa per fondare a Dresda la celebre Scuola della Saggezza: il tour va ripercorso come itinerario di saggezza nel suo Diario di viaggio di un filosofo (Neri Pozza). E, poco più su, spunta un altro rampollo della nobile pianta, sul terreno della Parigi della Seconda Guerra dove un estremo nipote si aggirava tra i salotti intellettuali della città occupata dalla Wehrmacht: ben riconoscibile, aureolato com’era dalla luce dorata irradiante dalle fronti dei nobili europei.
Un riverbero ne brilla ancora nelle Irradiazioni di Ernst Jünger, che così lo ritraeva: «Da Nostitz, in Place du Palais, tra gli ospiti notai il giovane conte Keyserling, benché non aprisse bocca per tutta la sera. Se ne stava sdraiato in poltrona, come un gatto, con un’aria tra sofferente e trasognata. Le antiche stirpi conservano ancora, perfino nelle sfere più intellettuali, sicurezza e senso di stile».
È una lunga storia quella dei von Keyserling, aristocratici baltici di antichissima stirpe feudale da cui Eduard ereditò (e tramandò) stile blasoni e tradizione. Nato principe di Curlandia nel castello di Paddern (oggi Lettonia) nella primavera del 1855, si avvolse fino alla fine dei suoi giorni - fino all’autunno del 1918 - nella principesca «aria di famiglia». Cresciuto gentiluomo di schietto sangue blu, attinse alle sorgenti della discendenza per irrorare la vena della sua prosa: la prosa di uno dei più grandi narratori della letteratura tedesca moderna.
Per cogliere un barlume della luce che emanava dal personaggio - luce declinante, e tanto più languidamente sfavillante nel tramonto delle glorie familiari e nel crepuscolo di un’esistenza di nobiluomo malato, d’artista scapigliato, di malinconico bohémien - ci si accontenti dell’impressione lasciata su Robert Walser: «L’ho incontrato qualche volta al caffè Stéphanie di Monaco, dove veniva quasi ogni giorno a sedersi di fronte a un bicchierino di cognac, orgogliosamente solitario, quasi cieco. Un uomo distaccato in mezzo a una massa di indaffarati aspiranti alla più rapida carriera possibile. Mi faceva l’effetto di uno splendido esemplare di leone. Il re nel suo regno: un re che sta morendo». Per degustare, invece, quanto di quel regno - un mondo a parte, il mondo di ieri: (non) piccolo mondo antico - decantava nella sua arte, c’è il generoso profluvio delle sue narrazioni: trasparente distillato di scrittura invecchiata bene e pur sempre in fermento.
Riversata ultimamente in prosa italiana - nelle eleganti versioni di Eva Banchelli e Giuseppe Farese - sotto l’etichetta Marcos y Marcos che di Eduard von Keyserling ha appena pubblicato i romanzi Onde e Il castello di Dumala, rivela preziosa lucentezza di perla e un frizzantino di maliziosissima modernità. Basta un assaggio: poche righe, le prime delle Onde in cui l’artista dei piccoli tocchi (a torto definito impressionista) tratteggia atmosfera colori e dettagli di un intero universo. Basta un accenno: ai nastri della cuffia disciolti dall’accaldata generalessa von Palikow - frusciante in estivo abito lilla, scomposte le crocchie dei capelli -, e al pince-nez pinzato sul naso della sua dama di compagnia - che lancia da sopra gli occhiali occhiate indulgenti, lancia commenti affilati da labbra impazienti - per sapere che le dame discorrono di affari scottanti. Legami audaci, liaisons dangereuses, ménage proibiti: quale è quello tra la bella Doralice, contessa Köhne-Jasky dal doppio cognome, e il gagliardo pittore che, senza «von» e senza ma, porta il disadorno nome borghese di Hans Grill.
È l’incontro (amoroso) tra due sfere della società, lo scontro (scandaloso) di due civiltà: narrato da von Keyserling - nel 1911, al culmine della sua stagione più matura - come una delle innumerevoli passioni segrete (e chiacchierate) che ardono nei suoi romanzi. Passioni accese immancabilmente nella sua patria baltica, a trasfigurare, scriveva Thomas Mann, «in malinconica ironia l’ambiente di famiglia», a sublimare, proseguiva, «in spirito e leggerezza un’atmosfera di discrezione, contegno, purezza, grazia e rigore nobili». Passioni immancabilmente consumate nell’ambiente di un castello, chiuso da mura merlate, cinto di torri gugliate, spiato da una feritoia, raggiunto su un ponte levatoio: pare più facile arrivarci attraverso il vetro di uno specchio, o lo specchio di una fonte, tanto evanescente e rarefatta è la sua realtà, tanto fitta e densa è l’atmosfera d’incanto - d’incantesimo - fiabesco che vi regna.
Come attorno al pastore Werner, l’eroe in abito talare di Il castello di Dumala stregato dallo charme della baronessa Karola. O come il conte Günther von Tarniff, fatalmente diviso tra Beate und Mareile (è il titolo del 1903, tradotto da Sugarco nel ’90 come Un nobile adulterio): nobile moglie la prima, rustica e adultera la seconda. E, ancora, il giovane sottotenente di Versante sud (Guanda, 1989), Karl Edermann von West-Wallbaum che, trincerato dietro i titoli e i patronimici della casata, cede inerme, senza difese alla bruna sensualità di Daniela. Eppure «la raffinata arte della difesa», predicava la generalessa von Palikov tra le Onde era un punto d’onore per la nobiltà della décadence: «Il nostro antico nome - credeva - vuol dire che siamo roccaforti alle quali gente diversa da noi non può avere accesso».
Invece le mura del castello arroccato si sgretolano e von Keyserling che, autore del capolavoro Principesse (Adelphi, 1988) non concede un lieto fine alla favola dei principi, ci porta dentro personaggi nuovi: votati a farne crollare le corti fin alle fondamenta.

Vivo il principe di Curlandia, le dimore dei von Keyserling disseminate tra il Baltico e le Alpi ancora (per poco) reggevano: immobili oasi di quiete «velate dalla polvere bionda del tramonto» e dall’Afa (Adelphi, 2000) di un’eterna estate dorata. Ma, nel dipingerle, Eduard von Keyserling, il «vecchio leone», anche morente, accecato e sofferente, non trascura di dare la sua zampata. E di lasciare, tra humour, disincanto e malizia, il segno dei suoi graffi.

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