KIRAN DESAI L’India che non puoi dimenticare

Il suo romanzo è un’indagine sulle imposizioni di elementi occidentali agli «immigrati»

da Londra
Era già successo venticinque anni fa con l’allora sconosciuto Salman Rushdie e I figli della mezzanotte, vincitore nel 1981 del prestigioso Booker Prize per la narrativa britannica e del Commonwealth. Anche quest’anno bisognava lasciar fuori i mostri sacri, incentivare i giovani talenti, premiare le nuove voci del romanzo. Questa la politica della giuria 2006 del Man Booker Prize, il premio letterario inglese di maggior peso (50mila sterline e vendite alle stelle assicurate), che ieri ha consegnato l’alloro al romanzo The Inheritance of Loss della giovane scrittrice indiana Kiran Desai.
Kiran, trentacinque anni, è così la più giovane scrittrice a vincere questo premio che la madre, la nota romanziera Anita Desai, per tre volte ha soltanto sfiorato. Nata in India, Kiran ha vissuto in Inghilterra dove ha studiato a Cambridge e ora vive negli Stati Uniti dove frequenta un corso di creative writing alla Columbia University. Ancora agli esordi, ha impiegato sette anni a scrivere questo romanzo, «per cercare di spiegare che cosa significa vivere fra est e ovest, fra occidente e oriente».
«L’eredità perduta» o più precisamente «Il retaggio della perdita», suona il titolo in italiano, perché come spiega l’autrice, la perdita del titolo è la perdita della fede nell’India da parte di una legione di immigranti clandestini negli Stati Uniti. «Il romanzo è un’indagine sulle conseguenze delle imposizioni di elementi occidentali in un Paese che non è l’Occidente, come è successo durante il colonialismo britannico e come succede ancora nei nuovi rapporti dell’India con gli Stati Uniti». Un romanzo globalizzato per un mondo globalizzato, hanno decretato i critici inglesi, «che rileva le riverberazioni multiculturali del nuovo millennio con lo strumento sensibile della fiction». Quando uscì questa primavera, il New York Times lo definì «il romanzo più significativo della narrativa post 9/11».
The Inheritance of Loss (Editore Hamish Hamilton, Londra) è ambientato alla metà degli anni Ottanta in India e in America, fra tradizione e modernità, passato e futuro. Ormai in pensione, un vecchio giudice anglofilo che ha studiato a Cambridge vive ritirato nel villaggio di Kalimpong, ai piedi dell’Himalaya indiano, con la figlia Sai, innamorata del suo insegnante di matematica, Gyan, di origine nepalese discendente dei gurka mercenari. Il quale rifiuta tuttavia i privilegi sociali di lei e si unisce a un gruppo di rivoluzionari nepalesi. Parallelamente la narrazione ci porta nei bassi di Manhattan, dove i figli degli antichi servitori della famiglia di Sai, elementi di quella «classe ombra» di immigranti illegali a New York, vivono una vita di sfruttamento e di lavori sottopagati. Il comune denominatore di classi e individui così diversi, «prodotti di mosse fatte molto tempo fa» come scrive l’autrice, è un retaggio esistenziale di impotenza e umiliazione, sotto il peso del potere culturale ed economico dell’Occidente. Che il livellamento globale economico del XX secolo acutizza invece di lenire.
Tutti i personaggi di Kiran Desai sono stati feriti e mutilati dal loro incontro con l’ovest. Quando era uno studente isolato in un’Inghilterra allora molto razzista, il giudice si sentiva «solo vagamente un uomo» e sussultava ogniqualvolta veniva sfiorato da un gesto amico, «come da un’insostenibile manifestazione di intimità». Ma quando fa ritorno in India, disprezza la moglie indiana per la sua arretratezza. Come scrive la Desai, il giudice è uno «di quegli indiani ridicoli incapaci di disfarsi di quanto hanno imparato annientando la propria anima» e la cui anglofilia può solo trasformarsi in autodisprezzo. Questo tipo di indiani, sottolinea, è anche un anacronismo nell’India postcoloniale, dove la gente ha cominciato ad esprimere la rabbia e la disperazione accumulate. Non è difficile sentire in queste pagine l’influenza letteraria di V.S. Naipaul, l’eco dei suoi racconti sull’incontro dell’Africa della tradizione con il mondo moderno. E non a caso Naipaul compare nel libro, accusato polemicamente da un personaggio della Desai di «ignorare che ora esiste un’Inghilterra nuova, con una società completamente cosmopolita».
Ma Kiran Desai è scettica su questo pluralismo culturale imperniato sul consumismo, convinta che esso non possa affrontare e tantomeno risolvere le cause degli estremismi e della violenza del mondo moderno. Né che la globalizzazione economica sia una via d’uscita per i diseredati. «È possibile raccogliere il profitto soltanto nel divario fra nazioni, lavorando gli uni contro gli altri». La modernità, conclude, è nuova un giorno, in rovine l’altro.

Peggio ancora, «gli odi antichi ritornano eternamente, sono più puri perché il dolore del passato si è dissolto. Resta la rabbia, distillata, liberatoria». Un romanzo che non offre soluzioni, post 9/11, post Salman Rushdie.

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