KURKOV «L’Ucraina è un grande romanzo»

Nato nel 1961 a Leningrado, lo scrittore ricorda la sua infanzia sovietica. «Ma amo Kiev, capitale di un Paese giovane e tutto da scrivere»

da Kiev
A quale genere letterario appartiene un romanzo su un pinguino cardiopatico e depresso che vive a Kiev con un giornalista di necrologi? Surreale, si direbbe. Variante umorismo noir. Ma se il pinguino è il lascito di uno zoo in crisi dopo la fine dell’Urss e il giornalista ha trovato quel lavoro ben remunerato perché i necrologi fanno parte di un disegno mafioso, il surreale è reale e attuale, diremo un Gogol per ragazzi. L’autore del bestseller Picnic sul ghiaccio (Garzanti), Andrei Kurkov, vive a Kiev. Lo incontriamo in occasione dell’uscita di I pinguini non vanno in vacanza (Garzanti, pagg. 439, euro 16, trad. Bruno Osimo), seguito del primo episodio. Ha l’aria dell’intellettuale allegro, un po’ Eco prima maniera.
«Il mio primo libro è apparso a mie spese», racconta seduto a un caffè all’aperto di Kreschatik, principale boulevard del centro. «A dire il vero erano due libri. Grazie a un prestito di ventimila dollari ottenuto da un amico businessman, ho comprato sei tonnellate di carta e fatto stampare 25mila copie di un romanzo filosofico e 50mila di un racconto per bambini. L’unico distributore che li ha voluti era di Odessa. Ne doveva piazzare un po’ nelle edicole. Ero felicissimo. Ma ha usato i libri per negoziare un credito ed è sparito. Mi sono ritrovato a Odessa con diecimila libri, due tonnellate di carta sulle spalle e dovevo trovare un modo per riportarli in stazione. Ho noleggiato un furgone delle pompe funebri. Da restituire entro le undici di mattina del giorno dopo, perché c’era un funerale! Quella notte ho dormito sul furgone funebre coi libri».
E poi?
«Li ho venduti per strada, a Kiev, vestito da uomo-sandwich, con la scritta AUTORE al posto della pubblicità. Sono anche dovuto scendere a patti con un mafioso che controllava i venditori ambulanti. Volevo pagare in libri ma mi ha detto che non legge».
Vive in Ucraina, scrive in russo. Comporta difficoltà?
«Sono nato nel ’61 a Leningrado. E sono cresciuto a Kiev, dove si parlava e si parla russo anche se ora la lingua ufficiale è l’ucraino. Questo mi causa più che altro problemi coi critici: quelli ucraini non mi considerano perché scrivo in russo, i russi perché non vivo in Russia. Ma la mia fortuna editoriale è legata all’Europa occidentale, Germania, Francia, Inghilterra».
Nel suo romanzo L’angelo del Caucaso il protagonista parte alla ricerca di un manoscritto che Shevchenko (Taras, non Andriy, il Dante ucraino e non il calciatore), avrebbe sepolto nella fortezza dove i russi l’hanno esiliato. Il ritratto della figura storica è irriverente.
«Qualche accademico ucraino mi ha accusato di aver infangato il nome di Shevchenko, soprattutto attribuendogli un amore clandestino durante il confino. Ma ho avuto più paura quando due dei servizi segreti si sono presentati alla mia porta per chiedermi spiegazioni su L’ultimo amore del presidente, il libro dove ipotizzavo un avvelenamento che ricorda molto quello di Yushchenko, leader della Rivoluzione arancione».
Nei suoi libri l’avventura da cui scaturiscono tutte le altre è il sopravvivere. Trovare casa, mettere insieme il pranzo con la cena; l’arte di arrangiarsi è il cuore pulsante della sua arte narrativa...
«È così. Io stesso ho fatto i proverbiali mille mestieri, dallo sceneggiatore al guardiano di carceri».
Parla spesso di bambini, vittime e specchio dell’assurdo post-sovietico. Com’è stata la sua infanzia sovietica?
«Molto bella. Mio padre era ingegnere nella fabbrica di aerei vicino Kiev. Ricordo molti voli insieme a lui in cabina».
E un ricordo brutto?
«Quando mi sono perso a Pecerskaja Lavra, il monastero di Kiev con le mummie dei monaci nell’oscuro labirinto di grotte della collina sopra al Dnepr. Ho vagato per tre ore al buio prima di trovare l’uscita».
La madre dei suoi figli è inglese. Lei collabora con The Guardian. Mai pensato di trasferirsi a Londra?
«Io e mia moglie ci siamo conosciuti in uno scambio tra studenti universitari inglesi e ucraini. Studiavamo lingue. Ci siamo sposati in Inghilterra in modo avventuroso. Il mio testimone era una persona incontrata per caso durante il viaggio. La famiglia di mia moglie, che adesso è orgogliosa di me, all’inizio mi guardava dall’alto in basso. Gli inglesi sono snob e non ho grande simpatia per loro dal punto di vista umano. L’editore inglese che, dopo il successo in Germania, avrebbe comprato i diritti del mio libro, quando gli ho spedito il manoscritto mi ha risposto: “Pubblichiamo solo libri di qualità!”. Naturalmente ho conservato la lettera e gliel’ho mostrata quando sono diventato loro autore. Quanto al trasferirmi a Londra... l’Ucraina è un Paese giovane e come tale è problematico ma anche divertente e pieno di sorprese. Perfetto per scriverne, anche se la realtà rischia di essere più avvincente di qualsiasi romanzo».


Perché ha scritto un seguito di Picnic sul ghiaccio?
«Non ero riuscito a trovare un happy-end per la storia di Viktor e del pinguino Misha e subito dopo l’uscita ho scritto altri cinque capitoli. Il libro è andato bene e sono andato avanti».

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