L’altro Che che per il ’68 non c’è

La via del Che di Dario Fertilio (Marsilio, pagg. 366, euro 19) è un romanzo. Dunque materia che sfugge ai miei normali interessi, se non di lettore, almeno di recensore. Ma l’ambiente, i personaggi, la trama del racconto sono così impregnati di contenuti politici da indurmi a qualche riflessione: appunto politica.
Protagonista è Riccardo Modena, agente letterario d’una importante casa editrice, appartenente alla schiera - posso definirla genìa? - dei saccenti e all’occorrenza prepotenti sessantottini: infrenabili nei loro slanci verso l’utopia, nella conquista del cielo, nel loro grido di battaglia «Vietato vietare». E nel contempo d’insuperabile bravura nel puntare ai posti che contano, nel coltivare le amicizie giuste, nel concedersi - per la sacralità della carriera - i necessari compromessi.
Questo Modena - per il quale ho provato, cammin facendo con lui, una riluttante simpatia - va a Cuba sulle tracce dei mitici diari mancanti del Che: e proprio lui, che in Cuba aveva visto la patria ideale, il luogo dell’anima, e che nel Che aveva visto il simbolo dell’eroe coraggioso e puro - cito dal bel risvolto di copertina - scopre l’amara realtà. Scopre cioè che il castrismo è un regime in pieno disfacimento dove corruzione, affarismo e violenza si respirano nell’aria; e che l’adamantino cavaliere senza macchia e senza paura fu anche un fanatico crudele. Cui sarebbe piaciuto che la crisi dei missili Kruscev-Kennedy culminasse nell’apocalisse nucleare. Un lucido delirio, quello del Che: che istituì a Cuba un servizio poliziesco sulla falsariga del Kgb, e che considerava senza esserne atterrito la prospettiva d’una immane carneficina d’innocenti. «Perché in realtà, agli occhi della rivoluzione mondiale, nessuno è innocente. Per il fatto stesso di esistere e rappresentare il vecchio mondo, si è già colpevoli. Nemmeno il Che stesso, naturalmente, è innocente. Anche lui si trova tra coloro che dovranno essere liquidati. Ma che cosa rappresentano migliaia o milioni di vittime se si vuole cambiare il mondo?».
Ci furono insomma due Che. L’uno era «il giovane Ernesto, quello dei Diari della motocicletta, lo studente di medicina egoista ed egocentrico che giocava a rugby e s’innamorava delle brave ragazze di buona famiglia»; l’altro era un mister Hyde che «capace di liquidare in massa i prigionieri politici che gli erano caduti tra le mani, l’aveva ordinato senza esitazione né ripensamenti in quella gelida stanza della comandancia, appena preso possesso della fortezza che dominava l’Avana». Forse folgorato il giovane Che, come Paolo sulla via di Damasco, da un’improvvisa illuminazione: che gli fece incontrare un diavolo tentatore, piuttosto che Dio. Così divenne il Che cui piacevano i Gulag in versione tropicale, e che provava per gli omosessuali un odio primitivo.
Belle - pur con qualche sciatteria nel frasario spagnolo - le pagine che Fertilio, tramite il suo Modena, dedica alla duplicità misteriosa e tenebrosa del Che. Belle soprattutto se confrontate con le stucchevoli apologie dei Minà che pretendendo di sapere e narrare tutto del Che, hanno gran cura nell’occultarne la faccia segreta e inquietante. Si può essere coraggiosi fino al sacrificio della vita - con la grandezza d’un hidalgo - e nel contempo spietati come Stalin. La grandezza dell’epopea e l’orrore dello sterminio possono a volte convivere. Questo rapporto sdegnoso con la morte caratterizza la «hispanidad».

I battaglioni asturiani antifranchisti nella guerra civile spagnola avevano per motto «che importa morire, se non passeranno, e se passeranno, che importa morire». Non si deve immeschinire il Che intrepido e sanguinario, facendone un santino per le scuole. Fertilio non l’ha immeschinito, l’ha interpretato e rivelato.

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