L’amarcord di An nelle stanze del «Secolo»

Luca Telese

da Roma

Potresti dire del libro, che nasce intorno a una foto, ormai famosa. La squadra di calcio de Il Secolo d’Italia, stagione (giornalistica) 1982: in porta il futuro direttore del Tg2 Mauro Mazza, al suo fianco un terzino mingherlino con dei baffi terrificanti (che poi era il futuro ministro Maurizio Gasparri), di lato un barbone un po’ tarchiato con occhiali quattrocchi (Francesco Storace), e poi l’Orco Bruno Socillo (oggi direttore di Radiorai) e lo spilungone accovacciato (un certo Gianfranco Fini), e il trentenne pelatino senza scarpini, con le scarpe da tennis (il futuro consigliere Rai Gennaro Malgieri), il ragazzone braccia conserte (Claudio Pompei, attuale capocronista di questo giornale) e Silvano Moffa (poi presidente di provincia), e Gianni Scipione Rossi (vicedirettore delle tribune Rai) e tanti altri, fino a Pino Rigido (merita di essere celebrato se non altro perché è l’unico rimasto nel quotidiano di via della Scrofa). Forse quella foto l’avete già vista, forse no, di certo è un’immagine che merita di essere raccontata perché è fra quelle poche e rare che hanno un dono particolare: come le vedi ti fanno già pensare a un storia. Quelle che hanno grande forza e un sapore irresistibile di amarcord, finché non arriva qualcuno che ci mette un libro intorno, e trasforma quell’intenzione in un racconto.
A scrivere il libro che ti spiega l’immagine, e anche la piccola-grande storia che c’è avvolta intorno, ci ha pensato uno che in quell’istantanea c’era, Mauro Mazza. E lo ha fatto con il passo giusto: ironico, autoironico, affettuoso, certo, ma sempre anti-retorico. Così, se apri I ragazzi di via Milano (cronache e ricordi di un Secolo fa, Fergen 10 euro), trovi subito uno di quei frammenti di verità che ti immunizzano dal rischio autocelebrativo. Ti racconta, Malgieri, già nella prefazione, la sua prima esperienza da giornalista a Il Secolo. Non inchieste o fondi che parlano di carriere vertiginose, ma un barboso notista: l’autore. «Mazza stilava quotidianamente una noiosa, non certo per suo demerito, nota nella quale infilava tutto quello che Mantovani chiedeva, concludendola con l’immancabile pistolotto finale sulle magnifiche sorti e progressive della destra italiana, incarnata dal Msi e, alla bisogna tessendo, anche quando non ce n’era bisogno, le lodi di Giorgio Almirante».
Ecco, entri nel libro con questa presentazione spiazzante e sei già intrigato. Continui e non resti deluso: ci sono le foto di Enrico Para (reporter ufficiale del quotidiano) con mirabili squarci di vita redazionale ridanciana e sfigata. C’è il praticante doppiolavorista Fini, un po’ leader giovanile un po’ editorialista. C’è Teodoro Buontempo (oggi deputato e segretario d’Aula) capocronaca in mutande che si addormenta sulle scrivanie. Fai appena in tempo a chiederti se sia un aneddoto inventato, ed ecco che Mazza comprova il racconto del mito, con uno scatto mitico: er pecora sdraiato sulla scrivania di un collega (che imperturbabile scrive). Meraviglioso l’epilogo di Mazza: «Un giorno Buontempo si svegliò e lanciò un urlo, trovandosi a luce spenta con quattro candelieri posti ai lati e i colleghi che, sghignazzando, recitavano qualche preghiera adatta all’occasione». Una comunità goliardica e chiusa. E poi il mondo esterno, che trova ne Il Secolo un canale di comunicazione con quell’universo vagamente claustrale. C’è per esempio l’incredibile liason con il presidente della Repubblica, il socialista Sandro Pertini, che usa il fattorino del giornale, Angelo Mancia, per intessere diplomazia a distanza con Almirante. E che in certe serate fa avvampare il telefono dei redattori con la sua voce focosa: chiede consiglio, offre opinioni, dialoga con il giovane Mazza, a dimostrazione che nell’Italia dei guelfi e dei ghibellini c’erano varchi per passioni di contrabbando anche nei muri più infrangibili. Ti chiedi se Mazza non ti abbia sedotto con il passo breve della sua bella calligrafia, quando con altrettanta leggerezza irrompe il dramma. Il fattorino Mancia - per dire - steso dal piombo di Volante rossa. O la tipografia che salta in aria, nel 1980, e l’impiegata di redazione che grida: «Il terremoto, il terremoto!». E Mazza: «Le dicemmo: “È una bomba, non è il terremoto”. Lei, chissà perché, sembrò rassicurata». Mazza dice di tutte le angosce, le paure, gli espedienti di quel tempo. Ma poi conclude: «Anni bellissimi, perché coincisero con la nostra gioventù.

Se Fini avesse profetizzato che un giorno sarebbe diventato il leader della destra di governo avremmo chiamato la neuro». Ecco, chiudi il libricino e ti ritrovi in mano una storia che ti spiega il sottilissimo confine fra la Neuro e il Potere. Non è mica poco.

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