L’America mette all’angolo Teheran: se toccate l’Irak farete i conti con noi

Cheney difende il raid di Erbil: «Gli iraniani fermati foraggiavano i terroristi». E contrattacca: «Faremo di tutto per bloccare chi vuol destabilizzare il Paese»

Quello non era un consolato e i suoi impiegati non erano lì per archiviare pratiche diplomatiche, ma per fornire aiuto e armi agli insorti iracheni. La tesi dell’amministrazione Usa ora è ufficiale, scevra da segreti o ripensamenti. Sull’argomento la Casa Bianca non sembra voler fare mezzo passo indietro. Anzi semmai qualche passo avanti. A darlo a capire sono gli esponenti di punta dell’amministrazione scesi in campo per difendere la decisione presidenziale di metter fine alle attività iraniane nel capoluogo curdo di Erbil. «L’Iran sta pescando nel torbido e farebbe meglio a tenere i suoi uomini a casa propria, siamo decisi ad impedirgli di destabilizzare la situazione» ha detto il vice presidente Dick Cheney difendendo la tesi, sostenuta dai comandi statunitensi a Bagdad e dal Segretario di Stato Condoleezza Rice, secondo cui i cinque iraniani catturati non sarebbero dipendenti consolari, ma Pasdaran della Brigata Gerusalemme. A detta degli Usa sono insomma agitatori di professione, militanti di quel reparto speciale dei Guardiani della Rivoluzione responsabile, secondo l’intelligence occidentale, delle operazioni clandestine fuori dai confini della repubblica Islamica. «Un gruppo conosciuto – spiegano i comunicati dell’esercito statunitense a Bagdad - per fornire fondi, armi, ordigni esplosivi e addestramento ai gruppi estremisti che tentano di destabilizzare il governo iracheno attaccando le forze della coalizione». A gettare altra benzina sulle già roventi relazioni con l’Iran ci pensa il consigliere per la sicurezza Stephen Hadley reiterando l’impegno a fronteggiare le attività della Repubblica Islamica sul territorio iracheno. «Il presidente ha detto molto chiaramente che queste attività sono inaccettabili perché mettono a rischio i nostri uomini... interdiremo ogni loro operazione, colpiremo le loro linee di riferimento e metteremo fine ai loro attacchi» ha spiegato il consigliere per la sicurezza nazionale evitando però di rispondere al giornalista della rete americana Abc che gli chiedeva se la risposta potrà spingersi oltre i confini iraniani. «Ogni domanda sull’attraversamento di confini internazionali – ha detto Hadley - implica questioni legali, di certo intendiamo interdire e metter fine ad ogni attività iraniana in Irak».
Da Teheran il portavoce del ministero degli Esteri iraniano Mohammad Alì Hosseini fa, ovviamente, piazza pulita delle tesi americane, conferma che quello era un consolato a tutti gli effetti e chiede non solo l’immediato rilascio dei propri concittadini, ma anche il pagamento dei danni causati durante l’operazione. «Gli americani devono immediatamente rimetterli in libertà – ha detto Alì Hosseini - e pagare il risarcimento per i danni causati al nostro ufficio di Erbil».
A gettar dubbi sulle tesi americane contribuiscono anche alcuni esponenti del governo iracheno dimostratosi sin dall’inizio assai poco entusiasta dell’aggressiva strategia della Casa Bianca. «È difficile cambiare la realtà geografica e ignorare che l’Iran sia un nostro vicino, la questione è estremamente delicata e rischiamo di giocare sul filo del rasoio» ha detto il ministro degli Esteri di origine curda Hoshiyar Zebari spiegando che il raid americano rischia di alterare «equilibri assai delicati».

A rendere ancora più evidenti le divergenze tra i vertici iracheni e la presidenza americana contribuisce anche il presidente iracheno Jalal Talabani partito domenica alla volta della Siria, l’altro Paese accusato dalla Casa Bianca di compromettere la stabilità dell’Irak.

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