L’«Amleto» di Marini tra citazioni e istrionismi d’attore

Tra tutte le opere di Shakespeare, Amleto è senza dubbio quella più «saccheggiata». Basti considerare approdi disperati come Hamletmachine di Heiner Müller oppure alla fascinosa macchina attoriale di Carmelo Bene. Comunque la si legga, quest’opera rappresenta l’essenza dell’uomo moderno: la sua fragilità, il suo vacillamento, la sua solitudine, l'esposizione dell'io ai misteriosi abissi della coscienza. Adesso Giuseppe Marini, regista/attore del quale abbiamo già apprezzato un fantasioso Sogno di una notte di mezza estate, mette mano con coraggio - e buona dose di ambizione - a uno spettacolo che, intitolato La tragica storia di Amleto e in programma al teatro Tor Bella Monaca da domani (ma già passato a India), convince solo a metà. Declinando la ben nota vicenda del principe di Danimarca come un universo afasico e impedito nel dire dove l’impotenza dell’eroe (di ogni eroe) di fronte all’azione finisce giocoforza col disarticolare la compatta «necessità» tragica dei fatti, Marini confeziona un lavoro a nostro avviso troppo intellettualistico. In una scenografia algida (una stanza foderata di pareti metalliche che aprono su soglie allusivi di un altrove), vi abbondano infatti le trovate, i rimandi, le citazioni (da Beckett a Bene, passando per la farsa, il varietà, la caricatura, il teatro gestuale, lo straniamento epico): materiali esterni che alla lunga rischiano di snaturare le vibrazioni umane dell’opera per favorire, piuttosto, le bizzarrie di un linguaggio sempre teso a negare se stesso. Il dire diventa dunque «dire troppo». Ciò costringe gli interpreti (e il regista stesso, impegnato nel ruolo del titolo) a un istrionismo eccessivo.

Tra le scene migliori va comunque segnalata la follia lieve e toccante di Ofelia (Gaia Insenga) sì come intensi risultano il momento dell’apparizione dello spettro paterno e l’inserto del teatro nel teatro, sorretto da trasbordante inventiva ma esasperato da un Marini/Amleto gigione. Sembra insomma che, intenzionato a fare della tragedia uno strumento simbolico, questo lavoro non riesca a spiegare la modernità del protagonista, di uomo «sull’orlo del baratro».

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