L’argento di D’Aniello, Cenerentolo della stradale che ha svoltato col fucile

Francesco, 39 anni, era agente di polizia: "Ho scoperto il tiro tardi perché le cartucce costavano troppo. Poi un giorno ho detto a mia moglie: seguimi, cambieremo vita..."

L’argento di D’Aniello, Cenerentolo della stradale che ha  svoltato col fucile

Pechino - Quando al telefono il sergente dei marine Walton Eller III ha detto «signorsì capitano ho vinto l’oro capitano», Francesco D’Aniello ha guardato la medaglia d’argento appesa al collo e ha pensato alle notti trascorse di pattuglia sulla volante, al puzzo dolciastro degli ubriaconi, allo sguardo buttato via dei drogati e ha detto «sì, ho vinto la mia scommessa». Poi ha abbassato lo sguardo e ha iniziato a piangere lacrime che raccontavano il film della sua vita, un film iniziato un pomeriggio come altri, quando prese sua moglie Stefania e la fissò dritto in volto: «Amore mio, stringiamo i denti assieme, ma se Dio ci accompagna, vedrai, cambieremo vita».

Francesco iniziò così a dedicarsi al tiro, Francesco è un Cenerentolo, è la favola di un uomo di 39 anni che ha scoperto lo sport dopo i trenta perché «sparare costa, ogni anno servono almeno 20mila proiettili, e io soldi non ne avevo». Francesco è buono con i buoni e duro con i duri, «l’ho imparato in quelle lunghe notti di pattuglia, quando dovevo agire con attenzione per fermare mariti che minacciavano le mogli o balordi che rapinavano uffici postali. Ricordo una volta a Torino, a fine anni Novanta, intervenni durante una rapina in un ufficio postale, fui energico perché quando stai in strada è un attimo e sei finito... Forse lo fui anche troppo – s’interrompe – e questo è uno dei primi insegnamenti che mi ha dato il tiro a volo: saper mantenere i nervi saldi».

E una medaglia olimpica (nel double trap, il tiro a due piattelli) è qualcosa che i nervi li può far saltare per la gioia. D’Aniello, prima di darsi al tiro a volo, nel 2000, prima di entrare nelle Fiamme Oro, di far parte stabilmente dal 2006 della nazionale, aveva trascorso anni alla polpostale di Torino, poi a Roma, nella stradale, al commissariato Viminale, sulle volanti di zona, infine era arrivata quella scommessa sulla vita decisa assieme alla moglie, una scommessa che ha tramutato una zucca in una medaglia. «È vero, la mia storia assomiglia a quella di Cenerentola, ero una persona qualunque e adesso sono un olimpionico, neppure dieci anni fa usavo il fucile per cacciare e dicevo che sparare ai passeri era meglio che ai piattelli e adesso ho l’argento al collo. Dov’ero durante i Giochi di Atene del 2004?», ride, «ero davanti a un pc a guardare i risultati... dov’ero nel 2000? A fare il poliziotto togliendo di mano coltelli e taglierini ai balordi...».

Piange Francesco durante la premiazione, piange anche il ct della nazionale, Mirco Cenci, il vero principe azzurro della sua storia. «Un giorno, nel 2006, venni a sapere di questo ragazzo ormai non più giovane che tirava però bene... lo andai a vedere durante una gara minore a Foligno – ricorda Cenci -. Decisi di aspettarlo: a fine competizione gli dissi solo “prepara il passaporto perché vieni con me in Corea alla coppa del mondo”, sapevo che cosa avrebbe potuto fare per noi». Cenci prende fiato e da lontano lo osserva salire sul podio: «Ecco che cosa ha saputo fare».

E lacrime, e visi arrossati, e un festival di emozioni sincere di gente che la favola l’ha scritta e mentre legge ancora non ci crede. Eppure è tutto certificato. D’Aniello è appena tornato dall’antidoping, ma non lo spaventa il test di rito, lo spaventano «gli scherzi che possono farmi gli amici. Quando lo scorso anno vinsi la coppa del mondo, rientrai nella mia Nettuno da trionfatore, ero in città che lo raccontavo a tutti e dalla squadra mi chiamarono per dirmi che il ricorso di un atleta era stato accolto e che avevo perso tutto... Furono quattro ore di vera depressione. Mi chiedevo “mo, dopo tutti questi complimenti, come lo spiego?”. Alla fine, dal team decisero di smetterla e di avvisarmi dello scherzo».

Forse anche così hanno messo alla prova e in gran parte eliminato il suo difettuccio di gara, che poi nella vita è un pregio, anzi, è l’essenza della vita stessa: la capacità di provare emozioni. «Mi mandarono dallo psicologo della Federazione Tiro, il professore Alberto Cei, lo stesso che seguiva la nazionale di Arrigo Sacchi...».

Già, le emozioni: non ho ancora parlato con la mia Stefania, non ho ancora sentito il mio piccolo Michele che vuole la ruspa e gliela porterò più grande che posso, però quando saremo a casa tutti e tre, so bene cosa dirò loro: “Amori miei, guardate questa medaglia, ce l’abbiamo fatta. Tutti e tre”».

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