L’Australia sta affondando ma non importa a nessuno

Le scene che in dosi omeopatiche i telegiornali ci concedono sono bibliche: poveri vecchi in bermuda aggrappati ai tetti delle case, cavalli che nuotano goffi a livello comignoli, correnti fangose che si portano via furgoni e scuolabus, gente angosciata che cerca di stipare nei bagagliai delle auto quante più cose nel minore tempo possibile, come in un sinistro e agghiacciante “Giochi senza frontiere“, con la differenza che qui non incombe il triplice fischio di Gennaro Olivieri, ma l’arrivo dirompente di un muro d’acqua alto cinque metri.
E’ l’Australia, già paradiso terrestre, già meta chic del turismo evoluto, già continente della leggerezza e della libertà. In questi primi giorni del 2011, una buona parte di questo Eden dai colori mozzafiato e dalle distese infinite, nella nostra immaginazione il migliore dei mondi possibili, sta soccombendo ad un cataclisma epocale. L’acqua si sta portando via un’area che i geografi prontamente equiparano a Francia e Germania messe insieme. Non si contano migliaia e migliaia di cadaveri, ancora, ma la tragedia resta immane e promette sviluppi inimmaginabili. Una città come Brisbane, la terza d’Australia, si ritrova con l’acqua al secondo piano, senza corrente elettrica, senza gas, senza che nessuno abbia la minima idea di come arginare una furia tanto più forte di qualunque apparato umano. Sarebbe come se Napoli o Torino, cioè una delle nostre città più grandi, improvvisamente fosse sommersa, obbligando moltitudini di disperati a correre verso le alture più vicine nel più breve tempo possibile, lasciandosi dietro casa, cose, futuro.
Per noi che conosciamo certi paragoni, l’Australia sta vivendo un enorme Vajont. Qualcosa di sconvolgente. Con alcuni risvolti orribilmente locali: tra le acque si aggirano i coccodrilli. Eppure, incredibile nell’incredibile, da questa parte del mondo sembra quasi che il dramma dell’Australia sia un dramma minore e minorato. Qualche immagine spettacolare per speziare un poco la televisione degli effetti speciali, genere “real-tv“, qualche episodio da cuore in gola con il pompiere che tiene stretto in mezzo alla corrente il bimbo terrorizzato, e al massimo un veloce notiziario per la conta dei dispersi. Poca passione. Se ricordiamo la giusta e doverosa emozione provata da noialtri per la Lousiana o per il Pakistan - cito a caso -, la differenza è sconcertante. C’è da chiedersi: che cosa ha, o non ha, l’Australia per meritarsi questa considerazione freddina e distratta?
Certo dai nostri teleschermi e dai nostri giornali non emergono gli occhioni penosi di bambini divorati dalle mosche. Certo non abbiamo il contatto visivo con i centri raccolta delle prime salme. Ma neppure possiamo averli: non abbiamo sul posto le troupe cammellate del nostro sistema informativo, che in altri luoghi e per altri eventi ci hanno portato in casa, 24 ore su 24, la tragedia di nazioni sventurate. Ciò che vediamo e percepiamo è direttamente proporzionale all’esiguità e alla superficialità di queste notizie mignon. Inevitabilmente, mignon è la nostra pietà.
Però sarà il caso di chiederci qualche perchè. Perchè l’Australia non se la fila nessuno? La nostra compassione dipende esclusivamente dal monte-defunti, sotto il migliaio non ci sembra neppure valga la pena d’infervorarci? Il nostro grado di immedesimazione, e dunque di partecipazione, è solleticato soltanto dalla cornice terzomondista degli eventi? Per dircela tutta: non sarà che l’Australia ci stimola poco, ci lascia tiepidi, ci inibisce nelle nostre corse alle sottoscrizioni e agli aiuti umanitari, soltanto perchè la pensiamo ricca, beata, garrula e spensierata, dunque si gratti pure lei qualche grana, ogni tanto?
Se così è, abbiamo qualcosa da registrare. La sofferenza e il terrore di un bambino australiano, anche se vive in una graziosa villetta con tanti alberi rigogliosi attorno, non sono diversi da quelli dei coetanei di altri luoghi flagellati. E i suoi genitori, che perdono tutto sotto l’oceano fangoso di questa apocalisse improvvisa, non vivono una tragedia più simpatica, comunque meno lugubre, di altri uomini e donne sventurati, neppure se durante la fuga li vediamo vestiti per bene in scarpe bianche e t-shirt hawaiana. Il continente dell’eterna estate, in queste ore, è un inferno come può esserlo la Lousiana, il Pakistan, il Veneto, quando e dove l’uomo perde il controllo che illusoriamente crede di detenere sulla natura.
L’Australia è certamente molto lontana, ma non è lontana quanto sembra dalle distanze che teniamo dalla sua tragedia. Ed è ancora meno lontana se soltanto pensiamo a quanti italiani, di prima e seconda generazione, vivano su quell’isola affascinante e sconfinata. Eppure, l’Australia resta là: bella, remota, estranea.

La madre di tutte le inondazioni non basta. Per vedere in giro da noi qualche ciglio umido, l’Australia deve presentarci il settequaranta, dimostrando di avere un reddito pro-capite inferiore alla media. Così, forse, può fare al caso nostro.

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