L’Europa che si trasforma

La nostalgia: tema seducente, romantico per eccellenza. Con tutto il portato filosofico che i grandi temi romantici recano con sé. Basterebbe andare alla radice etimologica del termine, al nostos, che in greco è la patria, il luogo dell’origine, ma non nel senso istituzionale del termine «patria». Piuttosto in senso sostanziale: il nostos è l’origine, la terra madre, forzando un po’ la mano si potrebbe dire la “matria”. Heimat, più che Vaterland, direbbero i tedeschi, non fosse che i termini sono sporcati dalle tragedie della storia. Ora, la nostalgia è il dolore per l’origine perduta, per la patria abbandonata, ma è tante altre cose, senza essere necessariamente rivolta indietro, anzi. Spesso guarda avanti per ritrovare dopo quel luogo da cui proviene. Naturalmente, come avviene per tutte le parole dense, la sua storia e il suo senso potrebbero riempire libri, se non biblioteche intere.
E alla nostalgia è dedicato il Festival Europe che si tiene a Fermo, nelle Marche. Oggi il filosofo Massimo Cacciari interverrà su «Nostalgia dell’abitare», affrontando il tema della dimora, della casa, della solidità delle radici, del dualismo abitare/pensare, nell’epoca in cui l’Occidente avverte più stringente che mai la questione del suo sradicamento.
Professor Cacciari, a partire dalla nostalgia di Ulisse per il ritorno a Itaca fino a oggi, è possibile fare una storia della nostalgia?
«Certo. La nostalgia è il dolore generato dalla lontananza da un’origine. Ma la nostalgia dell’Ulisse omerico è diversa da quella dell’Ulisse virgiliano o dantesco. La nostalgia omerica è nostalgia del tornare, quella dantesca dell’andare. La nostalgia del filosofo platonico è diversa ancora: è nostalgia del ritorno in se stessi. Si dovrebbe parlare delle nostalgie. Oggi c’è anche una nostalgia regressiva che non ha molto a che fare con il senso proprio della nostalgia e che ha conferito un’accezione, tutta nuova e snaturante, al termine “nostalgico”. Tutto ciò dimostra che la nostalgia, come qualunque parola, ha una storia, è in divenire, è equivoca, e non è assoluta».
E la malinconia?
«La malinconia è un’altra cosa. Abbiamo la malinconia che si confonde con l’incapacità di prendersi cura di qualcosa e la malinconia saturnina che impedisce di creare, che fa sedere a terra per quanto si abbiano potenzialmente delle ali per volare».
Nella nostalgia c’è un senso dell’inappagato ma anche una speranza. Non ambisce al presente ma a un altrove. Si può dire che è “atopica”, cioè senza luogo?
«La nostalgia dell’origine è quella del paradiso perduto. C’è un senso dell’inappagato, poiché c’è una perdita, ma c’è la speranza di tornare in quel luogo. La nostalgia del paradiso perduto non è atopica, perché è nostalgia di un luogo che non è presente ma che c’è stato. È lo stesso tipo di nostalgia giudaico-cristiana. Una variante è quella di chi ha nostalgia della terra madre pre-natale da cui si proviene e verso cui si ha, appunto, nostalgia di tornare. C’è però anche la nostalgia per un paradiso sconosciuto, che quindi non è mai stato abitato da nessun Adamo e nessuna Eva. Esso è proiettato esclusivamente al futuro. Ma è comunque un luogo, ignoto ma conoscibile in un futuro imprecisato. Nemmeno il romanzo utopico o l’utopia filosofica rinascimentale sono senza luogo, poiché per quanto parlino di mondi diversi da quello attuale, essi sono plausibili, governati dalle stesse leggi. Sono in un luogo possibile. Propriamente solo il romanzo fantascientifico è “atopico”, ovvero senza luogo».
Chi è un “nostalgico”?
«Lo accennavo prima: l’accezione attribuita al termine “nostalgico” nell’uso comune ha subìto uno slittamento semantico. È un’accezione povera del termine “nostalgia”. La chiamerei nostalgia regressiva, che è quella di chi, per uscire dalle contraddizioni e dai conflitti del presente, si rifugia in una presunta - sottolineo presunta - armonia passata. Il nostalgico regressivo non accetta il confronto con la conflittualità che è intrinseca alla vita stessa, pertanto non accetta la vita».
Eccoci alla «nostalgia dell’abitare», titolo dell’intervento di oggi a Fermo. Spaesato, senza casa, sradicato, l’uomo contemporaneo domanda una nuova dimora. Come rispondere a questa domanda?
«Nietzsche scriveva che il nostro è il tempo della dismisura, del delirio, in cui si perde la misura, dunque l’orientamento, i cardini. Heidegger, Simone Weil e altri hanno parlato di sradicamento che è, in sostanza, la condizione dell’uomo contemporaneo. Condizione nomade e odisseica, in un certo senso. È una situazione drammatica. “Si inaugura un tempo di rivoluzione permanente”, diceva il poeta tedesco Georg Philipp Friedrich Von Hardenberg, conosciuto come Novalis, alla fine del Settecento. Novalis, si badi bene, non Trotsky. Di fronte a questa situazione qual è il nostro atteggiamento? Cosa possiamo fare in campo economico, sociale, culturale, scientifico? Intanto la questione ha molteplici manifestazioni ma ricorrenze comuni. Gli artisti ne sono stati il primo e migliore sismografo. Ora la risposta peggiore, la medicina più nociva, è quella di una nostalgia regressiva. Insomma, rifiuto del meticciato e rifugio in una presunta identità pura e perduta non solo non aiutano, ma peggiorano la situazione da cui si vuole uscire. Meglio la nostalgia di un punto di riferimento comune, che almeno è una speranza, accettando le contraddizioni e le molteplicità delle figure che compongono il quadro».
In concreto?
«Prima cosa: occorre rappresentarsi bene quelle figure, ovvero conoscerle. Cosa che non si fa. Quando parliamo dell’altro, di un altro individuo, un altro popolo, un’altra civiltà, siamo sicuri di conoscerlo? E poi, una volta conosciute le figure, orientarsi verso un punto comune di incontro, immaginario, assente, senza pretendere di eliminare le differenze. Anzi, su quelle scontrarsi, aspramente al limite, ma senza bisogno di sopprimersi. Per intenderci, la giustizia deve reprimere il terrorista che si macchia di reati, ma la politica deve dialogare, conoscere e dialogare».
Perché invece questo approccio fatica a imporsi?
«Perché si è sostituito il “nemico” all’hostis.

Gli antichi avevano l’hostis, che significa avversario, ma con una sfumatura di rispetto. L’hostis era conosciuto e combattuto. Non veniva soppresso, annientato, ridotto a niente sia sul piano fisico sia sul piano culturale e spirituale. Oggi i contendenti, invece, si guardano come nemici».

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