Una morte dignitosa non riscatta una vita nefasta, ma può venire ricordata. E quella di Saddam Hussein lo sarà. Sopravviverà come icona di composta dignità nel ricordo di tanti, troppi nostalgici. Negli ultimi istanti sul palcoscenico del mondo Saddam impersona alla perfezione il ruolo prescelto. Quello danziano signore fiero e composto tra sgherri mascherati. Duomo umiliato, ma non piegato. Sono le sei del mattino in Irak, le 4 in Italia. Lui legge qualche versetto del Corano, lo restituisce, si trascina verso la fine. Cammina a fatica, stretto nei ceppi dacciaio, ma gli occhi sono quelli di sempre. Occhi capaci di far abbassare lo sguardo ai boia incappucciati. Non ascolti parole in quel video glaciale, ma risenti i ricordi di chi lo conosceva. Il suono della voce capace di zittire. Il tono capace di far gelare il sangue.
Lui parla e lincappucciato fa un passo indietro. Come se quel corpo esile, intabarrato nel cappotto nero e stretto in una sciarpa bianca incutesse ancora rispetto e sgomento. Era il suo regno dellorrore, la sua camera delle torture. Lì, nelle celle della quinta sezione dei servizi segreti di Khadimya, appena fuori dal centro di Bagdad, cadevano come mosche i suoi oppositori. Lì lo trascinano per stringergli il cappio al collo. La corda insaponata, il nodo così sproporzionatamente grosso attendono appoggiati sulla surreale passerella viola, a lato della botola. Lui non vuole accorgersene. Negli occhi sospesi sulla passerella di acciaio non leggi né pentimento, né rimorso né paura. Solo uno sguardo fuori fuoco, perduto in una prospettiva visionaria. Lo stesso cipiglio capace di sedurre le folle e irretire giudici e legali stringe ora lo stomaco dei testimoni.
Moneer Haddad è uno dei togati, ha respinto lultimo appello del raìs. È lì con i testimoni e si sente rabbrividire. «Non mi aspettavo una scena così terrificante, non maspettavo un Saddam pieno di autocontrollo». Il consigliere iracheno per la sicurezza nazionale Mowaffak al Rubaie racconta di aver letto la paura negli occhi del condannato. Deve dirlo per carità di patria. Non può ammettere che il Saddam morituro esca vincente da quellultimo scontro, ma limpressione è quella. Uno dei quattro sgherri in giacca di pelle e cappuccio, non si sa se usciti da un film dellorrore o di perversioni sessuali, gli chiede se ha paura. Saddam manco volta lo sguardo. «Non ho mai avuto paura in tutta la mia vita, non ho paura di nessuno, ho sempre vissuto come un mujaheddin, attendendo la morte in ogni momento». Laltro laccusa di aver distrutto il Paese. «Io ho costruito questo Paese e gli ho dato la prosperità, voi lavete distrutto. LIrak è nulla senza di me», replica gelido il tiranno incatenato.
Tirano fuori un cappuccio anche per lui. Saddam scuote la testa. Vuole guardare la morte in faccia. Gli fanno accettare un collare di stoffa nera. Serve a tenere fermo il cappio. Sembra glielo spieghino. Lui non fa una piega. Il cappio extra large scende sul capo, si stringe alla nuca. Lui guarda lontano. Limmagine televisiva si congela. Continua negli occhi dei testimoni. Saddam parla ai posteri. «Non fidatevi degli iraniani», raccomanda. Lancia lultima esortazione: «Allah Akbar, Dio è grande, la nostra nazione trionferà, la Palestina è e sarà araba». In un solo grido cè tutto quello per cui vuole essere ricordato. Un uomo religioso, unicona anche per quei fondamentalisti perseguitati per una vita. Un combattente simbolo della lotta contro gli americani. Un martire pronto a ispirare la lotta per lindipendenza dei palestinesi e degli altri Paesi arabi.
Il nodo si stringe. Il cameraman Ali Al Massedy filma da due passi quellagonia, scorge un lampo di terrore negli occhi. Il boia ha la leva della botola in pugno, inneggia a Moqtada Sadr. Il nome dellagitatore sciita ridà vita a Saddam. Prima che la gravità lo trascini allinferno lui rimastica quel nome in una smorfia di disprezzo. Il sadr si consuma in un gorgoglio schiumoso, nello schianto dellosso del collo spezzato. «La vita di Saddam si consuma in un battito di ciglia», rammenta Rubaie. «Senza sangue e senza conati», ricorda con puntiglio da medico legale il cameraman Massedy.
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