Una cinghia stretta al collo e un biglietto d’addio con due sole parole: «chiedo scusa».
Il taglio netto con la vita, deciso e programmato con lucida freddezza, che arriva, una mattina qualsiasi, a sibilare, come una sciabolata, nel buio della mente e del cuore di un bambino di undici anni. Perché? Rimbombano le domande che ci si fa ogni volta che accade qualcosa di inspiegabile.
Le domande che il dolore atroce, quello delle reazioni irrefrenabili, nell’odiosa altalena dei singhiozzi, fa urlare o riesce appena a far affiorare sulle labbra.
Sulle labbra di una madre, che si era ricostruita una vita con un altro compagno e su quelle di un padre che, pur lasciandosi alle spalle un amore naufragato, non aveva mai girato le spalle al suo bambino, nato da quell’unione, poi deragliata.
Un bambino felice, Filippo. Già, così orrendamente felice da pianificare il suicidio in ogni minimo dettaglio. Così orrendamente felice da giocare al pallone come ogni sabato, con l’entusiasmo, la voglia di vivere di sempre, e addirittura la gioia alle stelle per quel suo primo gol nella squadra degli esordienti e da decidere, soltanto tre giorni dopo, di uccidersi.
Tornando da scuola anzitempo per non trovare nessuno a casa, per poter prendere una cinghia, legarla al letto del fratellino di sedici mesi, nato dalla nuova relazione della sua mamma, e poi, con agghiacciante determinazione, cominciarla a tirare quella cinghia. Sempre più forte, sempre di più. Per andare incontro alla morte quasi con leggerezza, quasi con naturalezza, come se la morte facesse già parte della vita di un bambino della sua età. Come se la morte non dovesse fare paura a un bambino di undici anni, come lui. Quella sacrosanta paura che, invece, la morte deve per forza fare, quando le giornate di un’età così sono, o almeno dovrebbero essere, solo abbagliate dalla luce del sole, anche quando c’è la tempesta. E se nemmeno la paura di morire, di lasciare il sole, la luce, i calci al pallone, le torte di compleanno, persino di mollare per un istante la playstation, fa paura a un bambino di undici anni, ci deve essere per forza qualcosa che ha smesso di funzionare in questo mondo sottosopra.
Provate a rifletterci solo per un istante. Proviamo a non farci venire i brividi rileggendo insieme quel biglietto, quel «chiedo scusa», scritto, sì, con la calligrafia di un bambino, ma con la testa di un adulto che può soffrire, può aver sofferto nella sua vita e che per quel suo soffrire può anche aver maturato e deciso di compiere un gesto estremo come il suicidio.
Allarmante sensazione quando un bambino ragiona come un adulto, agisce come un adulto. Si uccide come un adulto. Per lasciare, attorno a se, solo il vuoto di un enigma. E consegnarlo a una madre che si dispera. A un papà separato, certo, ma che era rimasto un buon padre tanto da condividere con Filippo la spensieratezza cui un figlio di quell’età aveva diritto, se non sempre, almeno nei tre giorni alla settimana in cui si incontravano.
E allora ecco che il brivido attraversa tutti, attraversa anche un piccolo paese, quello di San Martino Ulmiano, non lontano da Pisa, che, sindaco in testa non si dà pace («È un lutto terribile per la nostra comunità ci mettiamo a disposizione della famiglia», dice sconvolto il primo cittadino Paolo Panettoni). Il lutto della gente. Gente come la gente di ogni luogo. Che gioisce, litiga, si deprime e risorge ogni giorno. Ma che, come noi, non riesce a trovare il filo nero di questa ennesima trama malefica.
Che sembra copiata o, quantomeno usata come ispirazione, una volta di più, dalle mille storie di morte e desolazione che fiction o cronaca, la tv, per colpa un po’ di tutti noi, sbatte in faccia ogni giorno a qualsiasi ora. Storie che presentano, anche e soprattutto ai bambini la morte come qualcosa di normale e di scontato. È così, purtroppo, non abbiamo alibi. Non ci si può nemmeno far finta di stupirsi. Inutile cercare motivazioni, quando, molto probabilmente, motivazioni vere non ci sono.
E se mille storie quotidiane di morte e desolazione diventano la «normalità» per Filippo e tanti altri suoi coetanei come se fossero le avventure dei Gormiti o le impennate di Cassano, allora i brividi aumentano. Perché non ha senso crescere in fretta, troppo in fretta, così. E scegliere di arrivare in fretta, troppo in fretta, al capolinea più scontato.
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