L’INTERVISTA 4 SAVERIO MOSCHILLO

È uno che parla tanto per comunicare il meno possibile, solo quello che vuole lui. Capire cosa può volere un uomo così è davvero molto complicato: una ne fa, cento ne pensa. Figlio di contadini della campagna irpina, Saverio Moschillo è un grande imprenditore della moda italiana, fondatore e anima di un gruppo che da lavoro a 1511 persone. Distributore e rappresentante per anni di marchi come D&G, Versus, Iceberg, Marc Jacobs e Anna Sui, nel 1996 ha deciso di lanciare John Richmond, la griffe più rockettara e sartoriale del mondo. Il successo è stato tale che ben presto sono arrivate le acquisizioni di Husky, Rudolphe Menudiere e Haute: brand molto lontani tra loro anche se poi l'unica cosa che conta oggi sul mercato è la strategia commerciale, quel giusto mix tra qualità e prezzo, tempi di consegna e immagine per cui Moschillo viene giustamente considerato un'autorità. Vicepresidente vicario di Camera Nazionale della moda dice la sua diretto e preciso come una fucilata. Che alla fine fa meno male delle solite coltellate nella schiena.
Di lei si dicono tante cose, lo sa?
«Come no? Per mia fortuna non ho scheletri nell'armadio, gli unici che possono trovarmi in giro sono quelli del dipinto appeso nel mio ufficio di Milano: un'opera di John Richmond ispirata da me».
Una delle voci riguarda proprio Richmond: dicono che lei sia il vero stilista della linea. È vero?
«A metà sì: siamo due anime che si sono incontrate e che alla fine creano insieme. Lui ci mette il lato rockettaro e il rispetto delle regole sartoriali di Savile Row. Io metto il mio senso del mercato e l'amore per la sartoria napoletana. E alla fine esce lo stile John Richmond che è una bomba, il diavolo e l'acqua santa».
L'idea più bella finora è stata quella scritta «Rich» sul sedere dei jeans. Chi l'ha avuta?
«Insieme. Lui ha trovato la parola e io il fissante chimico per cui la scritta non scompare neanche dopo non so quanti lavaggi. Gli ho anche suggerito la posizione perché John voleva scriverlo sul braccio o sulla spalla dei giubbotti, mentre a me sembrava meglio andare fino in fondo: se dici o fai qualcosa di grosso devi assumerti in pieno le tue responsabilità».
Lei lo fa sempre?
«A costo di passare per quello che non sono. Passo per essere aggressivo, ma se penso a come ero una volta mi viene da ridere: sono molto cambiato rispetto a quando ho cominciato a lavorare. Forse il cambiamento ha coinciso con l'arrivo a Milano: questa città ti fa crescere».
Come ha iniziato?
«Studiavo economia e commercio e avevo un compagno il cui padre, Guido Ranieri, faceva il rappresentante di moda. Quell'uomo mi affascinava e io piacevo molto a lui, diceva sempre che ero un tipo furbo e intelligente, che ci sapevo fare. Un giorno il suo autista si ammala e lui mi chiede di accompagnarlo in provincia di Foggia da un cliente. "Ti faccio un bel regalo" mi dice, io “se lo può tenere“: lo facevo volentieri per fargli compagnia e guidare la sua macchina, una Giulia 1300 verde, con il cambio al volante. Diceva cose fantastiche su come usare lealtà, onestà e determinazione per fare strada nella vita. Insomma arriviamo, il cliente non era ancora arrivato, lui mi dice di parcheggiare all'ombra e di svegliarlo dalla pennichella al momento buono. Dormiva così bene che l'ho lasciato in pace, mi sono arrangiato vendendo molto più del previsto».
Non si è arrabbiato?
«Macché, mi ha assunto. Mi dava 170 mila lire al mese. 70 in busta paga, il resto su un libretto di risparmio. Ho imparato da lui a spendere il giusto mettendo via parte dei guadagni per poi reinvestirli. Ecco come ho fatto a costruire 26 studi di rappresentanza nelle diverse città del mondo, nei palazzi e nelle vie più prestigiose.

A Roma sto addirittura a destra e a sinistra di Piazza di Spagna, a Parigi sono a 10 metri da Place Vendome e dai giardini del Lussemburgo, mentre a Milano posso scegliere tra via Spiga, via Sant'Andrea e Corso Venezia".
Si descriva in tre parole.
«Indipendente, determinato, leale».

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