L’opera lirica? Un lusso da esportare

L’opera lirica? Un lusso da esportare

Vittorio Macioce

I dirigenti dei teatri lirici italiani sono arrabbiati. Si lamentano che i fondi pubblici sono pochi, ma difendono il valore (artistico ed economico) delle loro imprese. L’unico responsabile, ripetono, è lo Stato, che come Pantalone non vuole pagare. Ma la lirica è anche un bene da esportare, un prodotto di lusso con il marchio del Made in Italy. La Nomura Securities finanzia una tournée del Teatro dell’Opera di Roma a Tokio e Shiga con recite di Rigoletto e Tosca. Una trasferta di circa tre settimane di oltre 350 persone (tecnici compresi). La domanda quindi c’è e il mercato estero può servire a dare respiro alle finanze dei teatri italiani. Ne è convinto anche Giuseppe Pennisi, economista-melomane che conosce numeri e segreti della lirica.
I mercati esteri sono una risorsa?
«La richiesta di tournée mostra che i teatri italiani non sono inefficienti tanto quanto si dice. È un settore (come i servizi taxi, le farmacie, i ristoranti e, vorrei aggiungere, giornali e giornalisti) tradizionalmente poco “esposto” alla concorrenza internazionale e che quindi soffre di tutti i problemi di chi non compete sul mercato internazionale. È, inoltre, un settore a tecnologia fissa; quindi, in un mondo dove il progresso tecnologico è rapido, perde competitività poiché ha pochi margini di riduzione dei costi. Aprire i teatri al mercato e alla concorrenza internazionale è uno dei modi per modernizzare quelli che sono a volte diventati carrozzoni comunali e che sono sulla difficile via del riassetto.
È una vecchia questione. Il costo del lavoro nei teatri lirici italiani è alto. Troppi dipendenti?
«Il numero di dipendenti è in funzione di cosa fa e da come è organizzato il teatro. L’Opéra di Parigi ne ha 1.500 (quasi il doppio della Scala). Il sistema operistico di Berlino (ora unificato in una sola amministrazione, oltre 2.000). La Wiener Staatsoper 1.300. Nel volume su La Repubblica degli Enti Lirico Sinfonici di F. Ernani e R. Iovino si mettono in luce le sacche di overstaffing, principalmente nei comparti amministrativi. In alcuni teatri, il malcostume è iniziato con “il compromesso storico” nella seconda metà degli anni ’70 è proseguito sino alla metà degli anni ’80, quando la normativa impose blocchi alle assunzioni. Riguarda, come accennato, principalmente ruoli non artistici o tecnici ma amministrativi (e in molti casi anche dirigenziali). La normativa sul lavoro, però, è tale che occorre far svolgere alla demografia il compito che le è proprio: farli andare in pensione.
Quanto pesano i sindacati nella gestione dei teatri lirici?
«Molto e dappertutto. In Germania fanno parte dei consiglio di indirizzo e vigilanza ossia degli organi di guida politica. In Francia nell’estate 2003 hanno paralizzato il Paese e bloccato i Festival. In Italia il problema vero è che la rappresentanza dei lavoratori è frantumata in sigle autonome, dove imperversano i particolarismi. Le stesse confederazioni nazionali non riescono a gestirle. E si verificano vicende tra l’ilare e il grottesco come “lo sciopero delle mutande di lana” che bloccò, anni fa, il Massimo di Palermo per settimane»
Quali sono i privilegi (e le miopie) da eliminare?
«La recente “circolare Buttiglione” che pone tetti ai cachet e incentiva coproduzioni è un passo nella direzione giusta. Il Principe deve anche allocare le risorse (ad esempio, il Fus) su base pluriennale perché le scritture di buoni artisti si fanno con tre - quattro anni di anticipo. Dovrebbe pure, a mio parere, limitare il numero di beneficiari al fine di concentrare i finanziamenti su intraprese di qualità: adesso, solo nella lirica, alle 14 fondazioni, si aggiungono una sessantina di teatri “di tradizione” e una trentina di festival. Si ha l’impressione di una distribuzione a pioggia. Il management deve approvare bilanci di previsione in pareggio (come previsto dalla legge) e chiuderli, a consuntivo, ugualmente in pareggio, a pena di sanzioni come commissariamento o anche scioglimento dell’istituzione.

A inizio del 2005, diversi teatri (il caso più clamoroso è La Fenice) hanno presentato bilanci di previsione in rosso (di dubbia legittimità) a scopo provocatorio: in quanto i tagli al Fus sono intervenuti a programmazione fatta e a stagione iniziata. Altri (Roma, Palermo) hanno modificato il programma, a denti stretti, per restare nell’ambito dei nuovi vincoli. Il Principe dovrebbe adottare un sistema di premialità nei confronti di teatri “virtuosi”».

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