«L’ultima estate in città» Una storia d’amore per cui perdere la testa

C ome tesi può sembrare un tantino estrema, eppure funziona: qualsiasi racconto - parola di E.M. Forster - può essere ricondotto a due strutture essenziali: un uomo vive un’avventura; uno straniero giunge in paese. A volte, naturalmente, le due strutture si sovrappongono. È quel che accade, per esempio, nell’ammaliante romanzo di Gianfranco Calligarich L’ultima estate in città (Aragno, pagg. 179, euro 15). Leo, un giovane milanese, giunge a Roma negli anni che seguono il boom economico e lì, fra i persistenti vapori mondani della dolce vita, si innamora di un’imprevedibile e fatalissima dama, Arianna: avatar, al pari della Holly Golightly di Colazione da Tiffany, della ninfa botticelliana che ossessionava Warburg (è infatti Capote, assieme a Hemingway, il nume tutelare di queste pagine). A Roma, Leo dovrebbe gestire la sezione capitolina di una rivista medico-letteraria, ma ben presto l’ufficio chiude, costringendo il nostro antieroe a farsi assumere dal Corriere dello sport, con un ruolo non proprio da redattore capo. Più in là, un amico gli troverà un posto alla Rai, ma inutilmente: Leo non resisterà nemmeno un giorno nella sede dell’azienda, un incubo di vetrocemento e aria condizionata. La linea d’ombra, dunque, non è oltrepassata; piuttosto si dilata in una bohème fatta di alcool, albergucci del centro e inviti a cena da parte di amici colti e benestanti, grazie ai quali riuscire a placare almeno i morsi della fame. Non ha aspirazioni borghesi, Leo: «I miei amici avevano idee molto precise, laurearsi, sposarsi e fare dei soldi, ma era una prospettiva che mi ripugnava». Meglio abbandonarsi alla «dolce alienazione» (la formula, con la quale Arbasino rischiarava il capolavoro di Fellini, si applica perfettamente al protagonista del romanzo di Calligarich), un’alienazione anzi dolcissima, visto che il gran cerimoniere della caduta a precipizio è un’Arianna decisamente sfilacciata (nel senso che è una fonte di perdizione, non di ritrovamenti), ma comunque dotata di quelle preziose due o tre rotelle fuori posto, senza le quali non c’è verso di far perdere la testa agli uomini.
Pubblicato la prima volta da Garzanti nel 1973 grazie all’interessamento di Natalia Ginzburg e Cesare Garboli - critico letterario idiosincratico, ma in grado di innamorarsi - il romanzo di Calligarich non è solo un dissotterrato scrigno di grazia, umanità e sentimento: è anche la storia d’amore più bella del 2010, infinitamente più vitale e primaverile delle mortifere parabole adolescenziali che al giorno d’oggi infestano gli scaffali delle librerie. Sfogliando L’ultima estate in città si è spinti addirittura a sospettare che, nel frattempo, sia sopraggiunto un indebolimento della specie umana, una difficoltà nell’accedere a una felicità che non sia soltanto l’emozione che accompagna, prosaicamente, il successo, ma che sia anche, perdonateci il termine teologico, beatitudine.


Per cui osiamo darvi un piccolo suggerimento: se vi accorgete che i sogni di qualcuno cominciano a somigliare alla paccottiglia, dategli da leggere queste pagine. Imparerà a sognare meglio, e soprattutto a rimettere i sogni alla giusta altezza.

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