L’ultimo travestimento: guru della Belgrado bene

La nuova vita del ricercato: barba e saio da santone, scriveva saggi su riviste alla moda, teneva corsi di meditazione e su dottrine new age

L’ultima volta con il suo volto è nel luglio 1996 a Han Pijesk, uno sperduto villaggio della Bosnia orientale. Da allora Radovan Karadzic cancella e riproduce se stesso decine di volte infilando un tunnel di fughe e travestimenti che gli vale il titolo di Arsenio Lupin dei Balcani. Al pari del suo alter ego letterario non teme né gli occhi dei gendarmi, né quelli della folla. Anestetizza i sospetti, scompare nell’indifferenza, si mimetizza nell’evidenza più plateale. Mentre il mondo gli dà la caccia attraversa le rive del Danubio, si cela sotto una barba e un saio da santone, snocciola lezioni di benessere agli amanti di new age e discipline olistiche. L’ultima volta è il 23 maggio scorso. Quel giorno il riverito professor Dragan Dabic ispira, ipnotizza e acceca centinaia di appassionati di meditazione riuniti all’Ada Cingalija di Belgrado.
Del resto come sospettare. Il compassato e ieratico maestro Dragan Dabic, conosciuto per la folta barba e il saio fino ai piedi, è uno dei più apprezzati precettori spirituali di una clinica di Belgrado specializzata in terapie alternative. Tra lettini e paraventi il vecchio poeta di tante odi allo sterminio dei musulmani e alla purezza della Grande Serbia distribuisce consigli sulla ricerca interiore, spiega le meraviglie della meditazione, elogia l’arte del silenzio. La stessa che - a voler credere alla moglie Ljiljan e alla figlia Sonja - gli permette di tagliar ponti con la famiglia e sprofondare in quella nuova identità mistica e immateriale.
Se il professor Dragan Dabic coltiva anime così come Arsenio Lupin arraffava gioielli e quadri d’autore, il suo alter ego più reale non scorda le antiche passioni. Sotto quel saio il vecchio cuore di psichiatra biscazziere amante di bluff, rakja e carte da gioco non cessa di trasmettergli il gusto dell’inganno. E così, mentre gli ispettori Guerchard di turno battono le caverne della Bosnia orientale dove i suoi ultimi fedeli tengono sempre pronte dispense e frugali giacigli, il massacratore gentiluomo torna nel cuore insanguinato di Sarajevo. Da buon criminale inesorabilmente attratto dal luogo del delitto si spinge fin lì, bussa travestito da contadino - come narrano le leggende degli ultimi 13 anni - alla porta del solito bar, scola una grappa con i vecchi amici, li inebria con la sua vita spericolata. Del resto se il suo alias professor Dragan Dabic firma i dotti articoli su calma e meditazione pubblicati e pagati da Healthy Life, la rivista patinata dei nuovi ricchi di Belgrado, tutto diventa plausibile. Anche il leggendario ritorno al villaggio natale di Buvda tra le montagne del Montenegro, quando in un grigio e gelido tramonto dell’autunno 2002 la madre morente sente la mano del figlio che l’afferra e quella voce dimenticata che sussurra «mati moje, mamma mia, sono io, sono qui».
Ma l’Arsenio Lupin di Buvda raramente si ripete. Chi lo cerca nelle ambulanze che a sirene spiegate attraversano i posti di blocco dei contingenti internazionali in Bosnia trova vecchietti morenti, ragazze con le doglie, uomini piegati in due da un infarto o da una peritonite. Eppure lui è là. L’hanno visto nei santuari ortodossi, sulle montagne, sull’uscio del pope di un villaggio. Ma all’arrivo dei cacciatori internazionali svanisce ogni traccia.

Era su un autobus di Belgrado. Era a Buvda. Era sulle montagne. Era nella clinica. Era sempre e ovunque e a tutti ripeteva «Il silenzio è d’oro, il silenzio è tutto, il silenzio è la salvezza». Vostra e soprattutto mia.

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