L’USCITA DALL’INGORGO

Se Massimo D'Alema ha compiuto il primo gesto politico venuto dal centrosinistra in cinque anni, Silvio Berlusconi non ha esitato ad andare a vedere le carte rilanciando con una possibile agenda che ha al primo posto le immediate scadenze istituzionali. Sono già lontane le ore in cui Romano Prodi si presentava come il «padrone dell'Italia», intimava al presidente del Consiglio di andare subito via e in cui l'Unione nel suo insieme faceva finta di aver incassato una maggioranza parlamentare in grado di governare. In pochi giorni è svanito l'incantesimo.
Il presidente ds ha avuto l'onestà di prendere atto della realtà, di misurarsi con la difficoltà di una situazione di stallo, di quello che giustamente è stato definito un pareggio e di prefigurare un dialogo con la Casa delle libertà. Ma ha avuto soprattutto il coraggio di esprimersi pubblicamente e di sfidare, all'interno della sua coalizione, quel vasto fronte che soffre della tara berlusconifobica e che scambia il senso di responsabilità con l'inciucio. In particolare, la proposta di un dialogo sull'elezione del presidente della Repubblica va al cuore della questione delle garanzie. In un Paese diviso esattamente in due, fra uno schieramento che rappresenta la spinta all'innovazione e che è minoranza in Parlamento e l'altro che esprime «un'Italia depressa» - la felice definizione è di Piero Ostellino - e che si prepara a governare, la figura del capo dello Stato sarà decisiva. Non potrà che essere l'ombrello istituzionale capace di far sentire al riparo i protagonisti di un bipolarismo militarizzato sul piano politico e netto nell'opinione pubblica.
Qui c'è il punto di partenza. Lo stallo non sta nel rischio di delegittimazione del governo dell'Unione. Del resto in questi cinque anni, l'insieme del centrosinistra non ha mai cessato di porre in discussione il diritto di Berlusconi, del Caimano, di sedere a Palazzo Chigi, nonostante il risultato nitido del 2001. La difficoltà di oggi, anzi ad essere più espliciti, il rischio di un vero e proprio corto circuito, consiste nella velleità abrogazionista espressa da Prodi nei confronti non solo degli atti di governo della Cdl, ma direttamente del suo fondatore e leader. Per di più senza neanche essere certo di aver i numeri, in Senato, per arrivare fino in fondo. D'Alema ha cercato di definire una via di uscita. Ha mirato a disinnescare la prova di forza ingaggiata da Prodi con la futura opposizione, operando l'unica correzione possibile, l'apertura al dialogo con le forze politiche del centrodestra.
La risposta di Berlusconi, a stretto giro di posta, va nella stessa direzione: trovare il modo di affrontare questa emergenza e guidare il sistema politico fuori dall'ingorgo. Non c'è più la proposta della «grossa coalizione», che l'Unione nel suo insieme rifiuta, ma c'è la richiesta esplicita di «un'intesa parziale» e «limitata nel tempo». Il presidente del Consiglio aveva due opzioni: continuare a fronteggiare la strategia dell'urto ingaggiata da Prodi e guidare l'opposizione nel muro contro muro, aspettando l'apertura di crepe nell'alleanza di centrosinistra, oppure cercare un incontro sui punti più importanti del conflitto e tentare una riflessione comune su soluzioni nuove, per citare le sue parole. Ha scelto la seconda strada.

Lui, considerato l'espressione dell'anti-politica, ha fatto politica nel senso pieno della parola. Ha cominciato a costruire un'opposizione che non solo non sta sull'Aventino, ma che rivendica i suoi diritti, condiziona l'Unione, spende i voti che ha ricevuto e continua a dettare l'agenda.

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