Lacrime di pescecani

Questo è un Paese che non ama le imprese. Non le ama perché le considera mucche da mungere, da tartassare con mille imposte, da imprigionare con migliaia di leggi. La libera impresa non ha cittadinanza, il libero mercato neppure. Ma purtroppo non c’è alcun Celentano che nel suo spettacolo mostri la classifica internazionale sulle libertà economiche, dove figuriamo al sessantesimo posto, fra Uganda e Nicaragua. Non c’è cantante che difenda le aziende, perché in un Paese mezzo socialista non è popolare.
Da noi regnano le oligarchie, quelle cresciute negli apparati statali, come a Mosca. Sono gli oligarchi a governare, insieme a poche grandi famiglie, a poche grandi banche. Dico tutto ciò perché quello che sta avvenendo attorno a Telecom è impressionante, ma soprattutto è stupefacente la mancanza di rispetto per i risparmiatori, la totale assenza di poteri che ne tutelino gli interessi. Mai come oggi si vede la politica intervenire sul corso di titoli quotati, sulle strategie di aziende private. Certo, in passato abbiamo assistito alla spoliazione, quando non alla predazione di alcuni gruppi. È il caso della Rizzoli-Corriere della Sera, della stessa Ferruzzi. Imprese in difficoltà, che avevano commesso degli errori, ma su cui è calata come un avvoltoio la mano dell’establishment, politico-bancario, privando gli azionisti dei propri diritti, smembrando, rivendendo, spesso a mani amiche.
È quello che avrebbe dovuto accadere nel 1994, con Berlusconi. I corvi – durante una trasmissione di Michele Santoro – dipinsero Fininvest come una società tecnicamente fallita, piena di debiti: il passo era breve, bastava che una banca chiudesse il rubinetto del credito e il gruppo televisivo sarebbe caduto come una pera matura e qualcuno l’avrebbe raccolta, riservando al Cavaliere, come disse un celebre politico diessino, un futuro da marciapiede, a raccattare l’elemosina. Le cose non andarono così.
E non sono andate così neppure con Telecom e con Marco Tronchetti Provera. Non ancora, quanto meno. Da un anno il gruppo è soggetto a pressioni straordinarie. Inchieste giudiziarie e debiti scuotono da mesi le fondamenta della società delle telecomunicazioni. A dicembre del 2006, quasi fosse un cavaliere bianco, si fece avanti il messo di Romano Prodi, ex oligarca delle Partecipazioni statali, che offrì un piano che avrebbe dovuto spezzare il gruppo in due, facendo passare la rete telefonica in mano pubblica. Fosse andato in porto il disegno di Angelo Rovati avremmo assistito alla resurrezione di una nuova Iri. Ma Tronchetti non si piegò e il progetto naufragò.
Così ecco spuntare un’altra operazione di «salvataggio». Pressato dai debiti – e certamente anche da errori e scelte sbagliate – il patron della Pirelli tenta una cessione di un pacchetto azionario agli spagnoli di Telefonica. L’operazione viene bruciata, mentre, dopo un viaggio di Prodi a Madrid, va in porto l’acquisto dell’azienda elettrica iberica da parte dell’Enel. Tronchetti ha i debiti alla gola. In Borsa le sue azioni non brillano, forse anche perché – come fa intendere lui – qualcuno le preferisce opache. Si fanno avanti le banche, pronte ad acquistare al minimo e tutto fa pensare che all’uomo che ha osato mettersi contro Prodi non rimanga altra via che firmare la resa e uscire di scena. Ma Tronchetti, con una mossa a sorpresa, si sottrae firmando un’intesa con gli americani di At&T e i messicani di America Movil. Apriti o cielo: evitata la trappola, Tronchetti è sommerso da un coro di disapprovazione e accusato di svendere la più importante compagnia telefonica agli Usa. Quella stessa classe politica che agevolò la cessione di Omnitel al gruppo Vodafone per consentire a industriali amici di scalare Telecom, ora grida all’italianità offesa.

Sono gli stessi che dopo aver tarpato le ali a Mediaset si strappano le vesti all’ipotesi di una vendita all’estero, gli stessi che appena sentono parlare di un’Esselunga in mani straniere piangono lacrime di coccodrillo.
Ministri e politici fanno a gara a dispiacersi e parlano di futuro del Paese, di interessi strategici. A me paiono solo dei pescecani cui sia sfuggita la preda.

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