L'amaro destino di Mou Può anche vincere tutto ma sembra un perdente

Il suo Real guida la Liga, il quarto campionato è vicino ma nulla conta. Per gli iberici è un eroe sconfitto che ha reso ancor più grande il Barça

L'amaro destino di Mou Può anche vincere tutto ma sembra un perdente

Si fa presto a dire Barcellona. A dire Guardiola, anche, ché i due si sa, sono inscindibili. Si fa anche presto - e forse non si sbaglia nemmeno - a violare uno dei tabù più sacri del pallone (la maledetta subordinazione del presente al passato) e dichiarare a se stessi, amici e parenti che questa vista negli ultimi anni sì, è la squadra più forte e bella di sempre. Si fa presto, e si dimentica il principale artefice di ogni così gloriosa vittoria: l'antagonista, il rivale. Lo sconfitto.

Partiamo da una storia già vista. Il Real Madrid viene eliminato dalla Copa del Rey: gioca bene, rimonta un 2 a 0 troppo pesante, pareggia, spinge ancora. Ma non passa il turno. La stampa incensa le merengues per l'orgoglio, la reazione, il coraggio, la capacità di lottare: tutte caratteristiche del buon toro, non del torero che balla, sornione, sulle punte, e trafigge secco quando è il momento. «Non ha vinto nessuno, ma possono essere soddisfatti tutti», ha addirittura scritto qualcuno. Mourinho ha incassato i complimenti e tante grazie? No di certo. Chiedetelo a Texeira e alla sorpresa che ha avuto nel parcheggio del Bernabeu.

Quanta epica in questa sfida geografica, politica, calcistica. Potremmo definirla eterna, ma in realtà è già finita, almeno per quanto scritto nel capitolo della storia recente. La vittoria dei blancos sul Levante porta le meringhe a più dieci sul Barça, eppure una Liga vinta quest'anno, tragicamente, non servirà a nulla. Sì, sarà utile alla fredda statistica di José il caimano, l'insaziabile, il guerriero solitario. Una stella in più, la quarta nel quarto torneo disputato. Ma l'esperienza individuale, come dice Primo Levi, non è sufficiente alla formulazione del giudizio storico: e la storia, fredda, ha già decretato la sconfitta di Mou e del suo Real, beninteso non di Mou come allenatore, ma quella del ciclo ispanico del suo poema. La condizione dell'eroe è quella di essere soggetto ai capricci del fato, sprovvisto di arbitrio sulla propria vita, sulla propria gloria. Così il portoghese, che tante battaglie vinse nella patria di Enea, come invece un capriccioso Achille si trova a scalciare, orgoglioso, contro la moira crudele: in sala stampa, nelle poco valorose scazzottate di fine match, nei parcheggi, per l'appunto, dell'arena rivale. La moira: invisibile, impalpabile, impossibile da combattere, da pensare solamente, è la rivoluzione tikitakiana del palleggio "subatomico", di undici cervelli che ne fanno uno soltanto, undici piedi che in un'unica lancia e in un unico scudo si trasformano, mai domi, mai stanchi - lasciando di stucco l'antidoping. Facciamola breve: la rivoluzione del Barcellona.

Dieci partite tra Madrid e i cantera boys, una sola vittoria madridista. Il resto è composto da manite, pareggi, eliminazioni, Coppe dei Campioni e Coppe Intercontinentali sollevate mentre nella capitale si fingeva di essere interessati ad altro. Il singolo, isolato, trionfo (20 aprile 2011) rischia di trasformarsi in leggenda, quella che i nipoti chiedono ai nonni ormai bianchi non solo nel cuore ma anche sul capo. «Ma davvero hai visto il Real Madrid battere il Barcellona?» domanderanno, tutti a bocca aperta e occhioni brillanti. Eppure, come nell'epica più classica, il segno di sventura era proprio lì da accadere, puntuale e immancabile: la Copa del Rey in quell'occasione conquistata, di quel Re (Alfonso XIII) che incoronò nel 1920 lo stemma della squadra della capitale, nelle celebrazioni della vittoria sfugge alle mani di Sergio Ramos e finisce sotto le ruote del double decker scoperto.

José si ritroverà, sciamanico, a invocare «por qué» contro la lobby arbitrale, si farà espellere, manderà a quel paese, lotterà, sarà scorretto, insulterà giornalisti, colleghi, compilerà dossier che trasudano bile per svelare all'umanità intera le mascalzonate antisportive dei rivali. E perderà, ancora una volta, perché così è già deciso.

Eppure, nel fango della sconfitta, l'uomo che non voleva accettare il destino verrà ricordato come il grande perdente di un capitolo fondamentale degli annali calcistici: e la storia ci insegna, purtroppo o per fortuna, che gli eroi che sopravvivono alle nebbie dell'oblio e diventano icone

immortali (oltre a essere giovani e belli), più che dagli allori vengono dalle rovine degli imperi. O alla testa del più grande reame calcistico, ormai tragicamente decaduto. Ma senza mai arrendersi, nemmeno all'evidenza.

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