«A Lampedusa non accetteremo provocazioni»

In attesa dei manifestanti, gli abitanti avvisano: «Siano civili o sarà guerra»

Luciano Gulli

nostro inviato a Lampedusa

L’avanguardia dei manifestanti è già sull'isola, e in attesa di «solidarizzare» con gli abitanti, come dice il loro vessillifero Piero Mangione, segretario generale della Cgil di Agrigento, si è ormeggiata ai tavolini del bar «Mediterraneo» in via Roma, vinta dalla calura. Per il momento, assente il sindaco Bruno Siragusa che ha passato un'altra mattinata a mani giunte davanti al prefetto Bruno Pezzuto, per chiedergli se non ritiene di aver fatto una sovrana fesseria ad autorizzare la manifestazione dei no global in programma oggi, in piena stagione turistica, in costanza di effluvi di crema solare che ancora stagnano sull'isola; e Dio sa la fatica che già fanno gli albergatori e i commercianti dell'isola per convogliare quaggiù il popolo del nord, svogliato dai prezzi corsari degli aerei e intimorito dai titoli dei giornali e dei Tg che non la smettono coi loro minacciosi «Sbarchi a Lampedusa», o «L'isola sotto assedio»; per il momento, si diceva, il pugnace sindacalista si è incontrato con i consiglieri comunali e con il parroco, don Leopoldo Argento. Spiegandogli che andrà tutto bene benissimo; che la manifestazione sarà improntata alla massima civiltà; che i partecipanti arriveranno con la nave della Siremar scortati dalla Digos.
La quale Digos si è già appuntata su un quadernetto i nomi dei singoli partecipanti e i cellulari dei capi delegazione, pronti a mettere il sale sulla coda al primo spiritoso con smanie da «casseur». Che il «migliaio» di manifestanti saranno in realtà 420, e che di veri e propri, a voler esagerare, ce ne saranno una cinquantina, gli altri essendo della Cgil, appunto, dell'Arci, di Emergency, dei laici comboniani e della Rete antirazzista. E ci penserà lui, il Piero Mangione in persona, col mitico servizio d'ordine della Cgil, a mettere una pezza fredda sulla fronte di chi anche solo vagheggiasse di trasformare la perla del Mediterraneo in una succursale della Genova che fu, con corredo di molotov, vetrine scassate e Dio non voglia anche qualche rivolo di sangue.
Come il Mangione e i suoi scout intendano solidarizzare con gli isolani non si sa. Faranno il giro delle botteghe e degli alberghi? Batteranno le spiagge della Guitgia e di Cala Creta? Si spingeranno fino all'isola dei Conigli, nell'incanto di questo mare cobalto e verdolino avvampato di sole per rassicurare, lenire, molcire gli animi? Quando li ho lasciati, ai tavolini del «Mediterraneo», la discussione era ancora in corso. Ma forse, alla fine, non se ne farà nulla. Ovunque si girino, questi paladini dei Centri d'accoglienza da chiudere, dei no alla «Bossi-Fini» e no pure alla «Turco-Napolitano», per una «politica dei diritti senza frontiere», e dunque dell'avanti c'è posto per torme di sventurati che si avventerebbero in massa sulle estreme propaggini dell'Europa prima che sorgano i futuribili centri d'accoglienza e di smistamento in Libia e nel Maghreb: insomma, ovunque si girino, gli organizzatori della manifestazione vedono facce di marmo.
Come quella di Mimmo D'Agostino, noleggiatore di auto e di scooter all'aeroporto. «Se si comportano bene - dice Mimmo, gelido - tutto finirà bene. Ma se fanno qualche fissaria ci dovremo difendere. E sarà guerra». Anche Mariano Amante, ex palombaro, titolare del ristorante «Delfino blu», non è tenero. «I no global e i comunisti vogliono aprire i centri di accoglienza? Benissimo, dico io. Se li portino a casa loro, li curino e gli diano da mangiare. Ma a loro interessa un'altra cosa. Vogliono una massa di manovra da far votare a sinistra, quando gli daranno il diritto di voto. Qui siamo tutti stanchi. Dei clandestini e dei no global. E ci vuole niente perché questa provocazione che ci fanno finisca a schifio».
Più pacato è il vicesindaco Tommaso D'Ippolito, An, anche lui preoccupato per l'impatto che la manifestazione potrebbe avere sui fragili equilibri del turismo isolano (15 mila ospiti, mediamente, su 6 mila abitanti). «Io me li ricordo, i primi sbarchi di clandestini, all'inizio degli anni Novanta, prima che la Finanza e la Capitaneria varassero la politica dell'intercettazione in mare dei vascelli carichi di questi sventurati. Si sparpagliavano per l'isola, rubavano qualche paio di pantaloni e qualche maglietta dai bucati delle nostre donne per cambiarsi gli abiti bagnati, rubacchiavano nelle case. Niente di serio, sia chiaro. Ma vogliamo tornare a quell'epoca? Con le migliaia di disperati che oggi puntano su Lampedusa e arrivano più morti che vivi?».
Il Centro d'accoglienza, addossato all'aeroporto, ospita attualmente circa 200 clandestini, in attesa di essere smistati nei «cronicari» della Sicilia e della Calabria. Ma anche quando sarà pronto il nuovo Cpa, situato all'interno dell'isola e ricavato dagli ambienti di una vecchia caserma dell'Esercito, il problema di Lampedusa non sarà risolto. «E il problema principe di Lampedusa sa qual è? - sbotta Giovanni Cappello, proprietario dell'hotel "Medusa" -: il problema sono i giornali, la televisione, che agli italiani, ai potenziali turisti che tengono in piedi l'economia dell'isola danno ad intendere che i clandestini siano davvero a Lampedusa, che circolino tra noi. È vero il contrario. Qui, l'ultima volta che s'è visto un immigrato in giro sarà stato sei, sette anni fa. Ora li intercettano al largo, li fanno sbarcare al porto, e di qui tirano dritto al Cpa». Dopodomani, tutto sarà come prima. «Nuovi sbarchi a Lampedusa», titoleranno i giornali.

E i lampedusani continueranno a masticare amaro, e a fare i conti col prezzo delle bombole del gas (20 euro contro i 9 della Sicilia) col prezzo del carburante (più caro che in Trinacria) con l'assistenza medica precaria e le antiche lagnanze delle loro donne che per partorire devono prendere ancora la nave per Porto Empedocle.

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