Il «latino web» del mio liceo di frontiera

Volevo vedere la frontiera, prima che scomparisse. Come John Dumbar, il malinconico cavaliere nordista di Balla coi lupi, che si era fatto assegnare a Fort Sedgewick, scalcinato avamposto di fantasmi, pustola bianca piantata in mezzo alle terre rosse d'America, prima che la corsa all'Ovest facesse del continente il reame globale del dio dollaro e della Coca-Cola. La mia frontiera era però più nostrana, nel milanese, un quartiere, Bruzzano, incuneato tra la Comasina (ex-impero del bel René Vallanzasca, mezza dozzina di omicidi e un paio di secoli al fresco) e i primi comuni della cintura. Qui la metropoli si spegne nei capannoni, nei depositi, stazioncine delle Linee Nord, tangenziali votate all'intaso, con qualche bagliore di decoro visconteo, nuclei superstiti di borghi, vaste cascine di mattoni rossi, Lombardia doc, e un torrazzo di cui si favoleggia che una scappatoia sotterranea, carrozzabile, lo colleghi al Castello Sforzesco, pochi chilometri più in là.
Vi si erge il mio fortilizio, un liceo classico, che qui tutti chiamano ancora «Omero», perché così recita al vento lo stemma, tondo come la parmula di un legionario romano, che penzola sul cancello scassato da sempre, anche se la furia razionalizzatrice delle istituzioni l'ha reso anonimo «Liceo di Via del Volga», frammento di un puzzle disgregato nella città. Non ci sono mura, a cingere questa fragile casamatta di vetrate e ferro, edilizia precaria anni '60, quando i dintorni (io ci sono capitato poco dopo, era una conquista, una nicchia vinta a concorso, allora si usava così) erano in autunno terreni lucidi di aratro, con la nebbia a fiocchi («l'alito del drago», avrebbe detto Tolkien), e una giungla di pannocchie in primavera. Adesso la skyline è di torrioni e condomini, ma ogni mattina, quando varco la soglia con i versi di Sofocle e Virgilio che mi rimbombano in testa (insegno greco e latino) mi ripeto ciò che Licurgo, il legislatore, replicava a chi gli faceva notare che la sua Sparta non aveva nemmeno uno straccio di muraglia, e cioè che le difese vere non sono fatte di pietre e di cemento, ma poggiano sui petti dei cittadini.
Certo, strutture e blasoni non guastano: ma senza le volontà e gli ingegni, senza coraggio e passioni, sono castelli traballanti di carte, nella scuola e altrove. Ma perché quest'«Omero» è da frontiera? Per cominciare, nei luoghi comuni il «classico» è merce lussuosa, da centro (Milano schiera il Parini, il Berchet, il Manzoni, il Tito Livio, il Beccaria, in pochi esclusivi chilometri quadrati). La scuola deputata a perpetuare la tradizione avita degli studi eletti, vestibolo delle carriere, del cursus honorum della più scelta e privilegiata borghesia civica, senza troppo riguardo per le vocazioni, le attitudini e le disponibilità dei rampolli. Dunque, che c'azzecca una fucina di tragedie greche e di consecutio temporum ai limiti della fascia urbana, dove perfino il biglietto del tram cessa di significare qualcosa e si deve aggiungere la tariffa extra? C'è voluto poco per capire che militare alla periferia dell'impero era posizione di forza. Parlo per esperienza, concretissima raccolta di dati in tante decadi di cabotaggio dietro le patrie cattedre. Non conserverei davanti alla mia aula una colossale epsilon, intagliata nel legno, apporto di antichi allievi, che accondiscesero a trapiantare sulla parete un po' scrostata il segno delfico del conoscere te stesso, del mettere a fuoco il tuo limite, preambolo indispensabile del capirci qualcosa in tutto il resto. Certo i musei, le pinacoteche, gli eventi, le biblioteche più sontuose (qualcuno si ostina a definirli «occasioni culturali») sono centrali. Ma oggi basta una parabola, un cavo telefonico a banda larga e il mondo è a un tiro di un clic, basta volerli, l'esplorazione, lo scavo, l'informazione, se ti pressano come bisogno quotidiano, vitali come l'aria che respiri. Prendiamo le tre I (internet, inglese, impresa), famigerate forse perché propugnate da casacche politiche invise. Sembrano l'antitesi del classico, come il diavolo e l'acqua santa. Il qualunquista, il superficiale blatera che il classico non può stare al passo, che è in inguaribile ritardo. Ma quale ritardo.
L'aula di greco è stata forse la prima a dotarsi di video e tastiera, perché i thesaurus, le banche informative con i motori di ricerca che ti possono pilotare nei settanta milioni di battute in cui dilaga la letteratura ellenica sopravvissuta al naufragio (e negli oltre il doppio di quella latina) sono approdati qui dall'America una ventina di anni fa, e da allora sono il nostro libro di testo, il giornaliero sussidiario. Lo studente non si tira indietro, se percepisce che cavalca la cresta dell'onda, e che l'abilità con il pc non gli serve solo a dominare il videogioco, ma a spaziare dal primordiale Omero al raffinato Menandro, a scoprire corrispondenze, a sanare lacune. L'archeologia sperimentale (che non si ferma alla descrizione dei manufatti antichi, ma si avventura a ricostruirli per chiarirne funzionamento e applicazioni) parla soprattutto english. Dunque se mi addentro con i miei ragazzi in una pagina di Tucidide o di Erodoto con il reportage di una delle tante battaglie navali, e mi prefiggo di capire (comprensione storica, tecnica, pratica, non solo letteraria, da vocabolario di greco) le manovre di una trireme classica, non ho che da scaricare dalla rete i trattati sul tema degli specialisti americani o inglesi, più votati al pragmatismo, e impegnare il gruppo in uno sforzo di sinergie tra i saperi.
Finisce che ogni giorno diventa un'impresa, un progetto, senza profitto e senza urgenza, beninteso: il tempo educativo ha il suo gran bel respiro, la scuola non è azienda, né caserma, né ospedale.

Perciò dal mio ridotto di frontiera dico subito, forte e chiaro, che se si vogliono orchestrare piagnistei, requiem, geremiadi su questa scuola, io steccherò fuori dal coro.
*scrittore e insegnante
di Latino e Greco

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