Sandro Bondi*
In una recente intervista il ministro Giuliano Amato ha sostenuto la tesi che «abbiamo il disperato bisogno di una cultura politica che elabori e rifletta sui temi del nostro tempo. Oggi, infatti - secondo Amato -, questa cultura politica è del tutto assente, mentre c'era nel passato». Il ministro degli Interni riconosce il valore della leadership, ma al tempo stesso sottolinea che «il vero problema è dei partiti e nei partiti». Come dargli torto? In effetti, tutti sono chiamati oggi a una riflessione sui partiti e sulla leadership politica a conclusione di un'epoca contrassegnata, come ha scritto Mauro Calise, da un possibile corto circuito fra partiti e presidenti.
Con le elezioni di aprile abbiamo fatto ingresso in una nuova stagione politica. La tesi di Calise è che in questi anni le leadership presidenziali non siano riuscite a unificare le due coalizioni politiche né a diventare portatrici di un progetto di «ordine nuovo». In questo vuoto di iniziativa strategica alternativa al vecchio sistema politico, i partiti hanno potuto recuperare e rioccupare molte posizioni perdute. Con la differenza rispetto al passato che oggi i partiti non hanno più quella capacità di unità di indirizzo politico che hanno avuto. Nel frattempo, infatti, la crisi dei partiti si è fatta più acuta. Una crisi le cui radici affondano nella generale crisi della rappresentanza parlamentare e nella difficoltà di trovare nuovi canali di comunicazione con la società. Siamo così arrivati al punto che i partiti rischiano oggi di disgregare le già deboli coalizioni politiche e di fare a pezzi anche il fragile bipolarismo della Seconda Repubblica. Una situazione che si è aggravata dopo l'esito delle elezioni di aprile, quando la classe politica italiana si è rifiutata di prendere atto della realtà di un Paese diviso esattamente in due parti eguali e di immaginare, di conseguenza, formule politiche e istituzionali in grado di riconoscere una realtà politica complessa.
Se questa è la situazione e se è vero che oggi siamo di fronte a una possibile rotta di collisione fra il ruolo insostituibile della leadership e il ceto di partito riemerso dalle ceneri di tangentopoli, quali vie dobbiamo intraprendere per il futuro? Le strade, a mio avviso, sono due. La prima. Partiti e presidenti firmano un armistizio a fondamento della Terza Repubblica: i partiti rinunciando ad alzare bandiere in cui nessuno più si riconosce e i presidenti facendosi promotori e costruttori di un processo di rifondazione dello Stato e della politica. La seconda. Il centro prevarrà come spazio trasversale e mentale di una rendita di posizione sistemica. È la sospirata «terra di mezzo» di cui parla Follini, che è in realtà la palude del trasformismo, vecchio e perdurante vizio del nostro Paese. La prospettiva del partito unitario è legata a questa alternativa. Il patto tra partiti e leader può dare vita, in entrambi gli schieramenti, a processi unitari che conducano alla nascita di due coalizioni forti e omogenee. E così contribuire al consolidamento del bipolarismo. Viceversa, se prevale la seconda strada, assisteremo a un collasso dell'intero sistema e al ritorno del già visto ma nella forma della restaurazione. La strada che dobbiamo imboccare dunque è quella che vede partiti rinnovati lavorare a fianco dei leader.
*Coordinatore nazionale di Forza Italia
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