Legittimo impedimento in aula: il voto segreto spaventa il Pd

RomaUn pienone così non si ricordava da tempo. Per capirci, sembrava di stare all’elezione del capo dello Stato o a una storica visita del Papa. Invece, si discuteva solo - si fa per dire - di legittimo impedimento per il premier e i suoi ministri. Ma al di là del bel colpo d’occhio, poco importa che il Pd fosse presente in aula al 100% (per via magari delle nuove sanzioni pesanti previste per gli assenteisti). Alla fine dei conti, infatti, il risultato politico è uno solo: «È stato e sarà un nuovo flop» per i democratici, gongola la maggioranza. Perché lo spauracchio del voto segreto sugli emendamenti, sventolato alla vigilia (può essere voluto solo da un gruppo parlamentare di almeno trenta deputati, quindi solo dal Pd) allo scopo di portare alla luce i franchi tiratori del centrodestra, si è rivelato finora una bufala. E al momento, anche per oggi non si prevedono grosse sorprese.
Presenti in massa pure tra le fila di Lega e Pdl (Silvio Berlusconi ha chiamato lo scorso weekend uno a uno i ministri per far disdire impegni), gli onorevoli vicini al governo ribaltano la frittata. «L’opposizione ha paura», spiega il vicecapogruppo Italo Bocchino. Perché si sarebbe magari ripetuto «quanto avvenuto a luglio per il voto sul ddl intercettazioni» - aggiunge il vicepresidente della Camera, Maurizio Lupi - quando il centrosinistra prese circa venti voti in meno rispetto alle previsioni. Una circostanza ripetutasi due settimane fa al Senato, con 5-6 franchi tiratori democratici, comparsi durante l’esame del ddl sul processo breve. Tanto che Osvaldo Napoli, tra i deputati pidiellini contattati scherzosamente lunedì dai colleghi pd («se votiamo sì, cosa ci dà il Cavaliere?», è il senso ricorrente delle telefonate, sì ironico, ma che testimonia pure un’evidente difficoltà), ha gioco facile: «A questo punto, basterebbe chiedere il voto segreto per far passare tranquillamente tutti i provvedimenti sulla giustizia».
Tentazione forse balenata nel Pdl, ieri pomeriggio, per stanare i dissidenti tra gli avversari. Ma «sarebbe stato un inutile sfregio», chiosa un sorridente Ignazio La Russa. In perfetta sintonia d’umore con Bocchino e Fabrizio Cicchitto, entrambi personalmente impegnati a precettare i colleghi di partito, seguendo la direttiva del Cavaliere: «Gli assenti dovranno avere davvero validi motivi». E pronti a dare un’occhiata, nei casi di defezioni, anche agli eventuali certificati medici consegnati al gruppo. Così, una quindicina in media gli onorevoli Pdl «non presenti», tra cui però i ministri Franco Frattini, Claudio Scajola e Stefania Prestigiacomo, in missione in Israele e rientrati ieri notte, a cui s’aggiunge ovviamente il premier, che tornerà in Italia solo in serata. Ma al di là dei numeri, si ribadisce in Transatlantico, è l’intesa ritrovata tra Berlusconi e Gianfranco Fini, sempre rigorosamente alla guida dei lavori d’aula nell’intera giornata, a garantire la compattezza della maggioranza. Garantita pure oggi, quando alle 18 (il presidente della Camera non ci sarà, perché volerà negli Usa per una visita ufficiale), si dovrebbe arrivare al voto finale.
Ieri, intanto, bocciate le pregiudiziali di incostituzionalità presentate da Pd e Idv, si è andati avanti fino a sera per esaminare circa cinquanta emendamenti. A prendere le distanze da Bersani e Di Pietro è Pier Ferdinando Casini, che difende l’utilità del provvedimento, pur chiedendo che valga solo per il premier. In caso contrario, l’Udc si asterrebbe. «Nel rapporto tra potere legislativo e ordine giudiziario - spiega il leader centrista - secondo noi è necessario rimuovere un macigno che da 15 anni è l’alibi per tutti per non affrontare una riforma vera della giustizia, a partire dalle anomalie che spesso in quest’aula abbiamo evidenziato. C’è chi fa finta di niente, chi indulge nel giustizialismo di vecchio tipo e chi decide come noi di affrontare direttamente la questione. Per noi questo è esattamente il male minore».
Parole che non convincono il Pd, con cui si apre una profonda frattura. «Lo dissi 18 mesi fa e oggi credo sia una facile profezia dire che tra 18 mesi saremo qui nuovamente», dichiara Massimo D’Alema, convinto che «questa legge non risolve nulla ed è una sfida alla Corte costituzionale».

Contrario, manco a dirlo, pure Antonio Di Pietro: «Solo in un regime fascista o piduista si può accettare che delle persone, semplicemente perché fanno i ministri o il capo del governo, non devono andare dal giudice se chiamati a rispondere di reati».

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