Leonardo, il vero codice è quello della bellezza

Dopo il libro di Dan Brown Il codice da Vinci anche le celebri casalinghe di Voghera, secondo il prototipo inventato da Alberto Arbasino per raffigurare le donne del popolo, parlano del grande pittore fiorentino-milanese come di uno di casa. D’altra parte anche prima del romanzaccio popolare anti Opus Dei, Leonardo è sempre stato una figura di artista eccentrica, e non priva di mistero. La Gioconda, il Cenacolo, le due Vergini delle rocce sono quadri che hanno da sempre alimentato le interpretazioni più audaci.
A Flavio Caroli, ordinario di Storia dell’arte del Politecnico di Milano (del quale è appena uscito Arte d’Oriente e arte d’Occidente, Electa, pagg. 159, euro 29), il Codice di Brown non è molto piaciuto, ma appare un’occasione per parlare della «misteriosità tradizionale» dell’artista toscano: «La prima chiave della misteriosità di Leonardo sta nel suo essere sempre eccentrico all’ambiente in cui lavora: i Carracci “sono” Bologna, Botticelli “è” la Firenze medicea, Raffaello “diventa” la Roma papalina, Tiziano “è” Venezia. Quando tra ambiente e artista c’è compenetrazione, l’opera di quest’ultimo è immediatamente più leggibile. La civiltà della “sua” città aiuta a comprenderla. Il da Vinci invece non è mai Firenze, non è neanche la Milano che pure segna nei secoli con il perfezionamento del sistema dei Navigli e dove trascorre diciotto anni. Quando Lodovico il Moro viene sconfitto dai francesi, Leonardo si limita a scrivere di traverso nel Codice Trivulziano la frase: “Il Moro perse la roba e la libertà”. Addio, si passa ad altro. E subito dopo, in fuga dai francesi e dal clan del Bramantino, nuova star milanese, quel poliforme personaggio che è Leonardo non diventa né veneziano, né romano, né francese nel castello di Amboise dove Francesco I lo ospita. Naturalmente parte del suo mistero nasce anche dalla vastità dei suoi interessi: vero intellettuale alla Hegel, il da Vinci faceva di tutto: l’ingegnere, il regista teatrale, il naturalista, oltre che naturalmente il pittore. Raffaello è stato grandissimo ma era un pittore. Michelangelo è stato perfetto ma era pittore e scultore. Leonardo disegnava il corso delle correnti e a queste s’ispirava per raffigurare le capigliature femminili. Comunque l’argomento più solido per spiegare l’aria di mistero della sua opera poggia sul suo approccio alla complessità dei soggetti che rappresentava, la riflessione sulla personalità di chi ritraeva. Una novità anticipatrice, un’intuizione ancora più sconvolgente perché non fondata su una scienza positiva che sarebbe nata soltanto qualche tempo dopo con i Keplero e i Galileo, ma su una ricerca di qualcosa che legasse il visibile all’invisibile, un’intuizione di quella dimensione psicologica che sarebbe maturata dopo. La sua ricerca di un rapporto simmetrico tra microcosmo e macrocosmo rappresentava un tendere alla scienza ma era in qualche modo inscritta nella dimensione magica della spiegazione dell’universo prevalente ai suoi tempi. Comunque veniva magistralmente risolta dall’estetica. Alla fine Leonardo decise che era proprio la pittura il modo migliore per far cogliere le leggi dell’universo».
Che cosa dice dei giochi letterari browniani sulle singole opere di Leonardo, del personaggio che nell’Ultima cena raffigurerebbe la Maddalena minacciata da Pietro? «E san Giovanni? Se il personaggio indicato dal Priorato di Sion, la mitica istituzione inventata dal giallista, fosse la Maddalena, dove sarebbe finito san Giovanni? Era andato a fare pipì? No, l’Ultima cena è senza dubbio un’opera che ha colpito la curiosità popolare e colta per secoli. Anche quando Milano era decaduta, sotto la dominazione spagnola, in tutta Europa la fama del Cenacolo era rimasta altissima. Anche in questo caso era la capacità di anticipare i tempi che aveva impressionato tutti: il Cenacolo è un affresco “teatrale”, coglie il momento esatto in cui il Cristo dice: “Uno di voi mi tradirà”. Non è una raffigurazione mitologica tipica dei dipinti con soggetti di storia sacra. No, è una clamorosa scena teatrale. Non si caricano di simboli gli atti dei protagonisti dell’affresco, non si simbolizza “una minaccia” come suggerisce Brown. Ma si rappresentano i singoli gesti come quello di Pietro, sconvolto dalla parola del maestro. La capacità di narrare sarà una delle grandi caratteristiche dell’arte occidentale, ma si affermerà con pienezza nel Sei-Settecento. Ecco un altro campo in cui Leonardo anticipa tutti».
E la Vergine delle rocce? Nel dipinto del Louvre la centralità del Battista infante rispetto a Gesù bambino è evidente. La composizione è azzardata da un punto di vista della vulgata ortodossa. «Il mistero di questo dipinto è evidente: lo dimostra il fatto stesso che ve ne siano due copie, una al Louvre e l’altra a Londra. Per non parlare della terza copia della cui esistenza ho dato più di una dimostrazione. Perché l’artista fa due copie? Perché in quella realizzata prima, l’opera del Louvre, il San Giovannino ha quella posizione dominante e nella seconda il bambin Gesù recupera la centralità richiesta dall’ortodossia tradizionale? Senza dubbio a Milano vi erano culti esoterici della figura del Battista e poi la capitale lombarda è sempre stata, come peraltro Firenze, centro di eresie. L’interpretazione più diffusa delle due copie è che i frati di San Francesco abbiano chiesto a Leonardo di ridisegnare il dipinto secondo canoni tradizionale. In questo caso Brown ha materiale in cui sguazzare».
E la Gioconda, il suo misterioso sorriso? «Anche questo è un classico della discussione giallo-artistica. Ma secondo me la spiegazione è semplice: è l’introspezione della complessità della figura umana che suscita tanta curiosità e mistero. L’insondabilità interiore rappresentata per la prima volta con questa nettezza, stupisce e attira. Il mistero non è di Leonardo ma dell’anima umana che trova una finestra per esibirsi».
Attrazione e dileggio: Marcel Duchamp le fece anche due baffetti. «Uno studioso di grande valore, anche se talvolta attratto da interpretazioni ardite, come Maurizio Calvesi nei baffetti di Duchamp non vede soltanto il dileggio dadaista, ma anche la rappresentazione dell’alchemico androgino, la figura perfetta capace di unire il lato femminile e maschile della nostra specie: una dichiarazione di esoterismo».
Anche Sigmund Freud era attratto da Leonardo. «Da quel formidabile ricercatore innovativo che era, il padre della psicoanalisi aveva intuito la portata dello studio dell’animo umano dell’artista. Poi, però si è messo a psicanalizzare le opere leonardesche scrivendo anche qualche fesseria. Anche sui disegni dell’autore della Gioconda, Freud scambia le arretratezze nella cultura del tempo (per esempio nel campo dell’anatomia femminile) con le fobie omosessuali per il corpo della donna».
A tanti, Leonardo non è stato per niente simpatico, a cominciare da Gustave Courbet che lo giudicava un imbroglione. «Certo a quel duro realista di pittore ottocentesco, noto per i crudi dipinti come quello con un pube femminile in primo piano, la ricerca interiore di Leonardo non poteva non apparire un imbroglio. Per l’autore dell’Ultima cena la realtà doveva essere cercata nelle sue regole intime, per Courbet la realtà era invece quella su cui ci s’imbatteva immediatamente. L’analisi leonardesca contro la sintesi verista. Anche Michelangelo non poteva soffrire il da Vinci; il grande pittore-scultore era tutto carne, forma, destino: la tragedia in arte. Tutta quella riflessione intellettuale non gli garbava proprio. Altra storia quella di Raffaello: dalla bottega del Perugino esce con una tecnica eccellente, ma diventa Raffaello soltanto dopo aver incontrato Leonardo nella Firenze medicea. Anche Giorgione a un certo punto cambia il suo modo di dipingere e si lancia a produrre i suoi grandi capolavori. Non può essere un caso che proprio nella fase della sua svolta Leonardo sia a Venezia, in fuga da Milano, e in transito tra Mantova e Firenze: la vera natura del da Vinci era quella del vagabondo. Viaggiava sempre con un cassone pieno di cose, che talvolta gli venivano trafugate da un avventuriero che si portava dietro, il Salaì».
E dentro al cassone c’erano i suoi codici. Quelli veri, non quelli di Brown. «Ne abbiamo a disposizione un centesimo di quelli prodotti da Leonardo. In Francia, oltre al Salaì, al suo seguito c’era un gentiluomo milanese di grande virtù, Francesco Melzi, che quando il da Vinci morì si prese tutto il materiale accumulato nel modo zingaresco che si è detto e lo portò nella sua villa di famiglia a Vaprio d’Adda. Finché fu in vita il Melzi, gli scritti leonardeschi furono trattati con cura, anche se il gentiluomo milanese si dedicò a tagliare e ricucire opere che risentivano del carattere vulcanico dell’autore e non erano dunque mai sistematiche. Il famoso “libro di pittura” leonardesco è frutto di questo lavoro di taglia-e-cuci. Poi, quando Francesco morì, tutto cadde nelle mani di eredi ahimè non di grande cultura. Per un po’ il materiale fu depositato in soffitta, poi si disperse. Il nome di Leonardo era una garanzia e le sue opere girarono per tutta Europa. Annibale Carracci vide un po’ di queste carte in possesso del Settala che poi le regalò al Cardinale Borromeo, permettendo così ai milanesi di averle a disposizione nella biblioteca Ambrosiana. Si parla di un trattato di fisiognomica che sarebbe finito in Spagna, dove sarebbe stato consultato da Velázquez e da suo suocero Pacheco».
Artista vagabondo, carte vagabonde. «Leonardo si formò a Firenze, scelse la bottega del Verrocchio invece di quella del Pollaiolo. Dipinse da subito capolavori come L’adorazione dei magi. Ma non si sentiva a suo agio in un mondo di sofisticati umanisti, colti, antichisti, neoplatonici: un ambiente perfetto per artisti come Botticelli. Lui si definiva “uomo sanza lettere”.

E così, a trent’anni, scrisse una lettera al Moro dove si offrì come ingegnere militare. Iniziò così il suo lungo periodo milanese. Che una vita così dia adito a misteri e ispiri romanzi di avventura è assolutamente naturale».
(8. Continua)

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