LETTERA APERTA AI VESCOVI

Illustri e care eccellenze monsignor Ravasi, monsignor Bertone monsignor Bagnasco, leggo con soddisfazione del Loro intendimento di risarcire il rapporto fra arte e fede attraverso l’offerta di poesie e musiche, opere d’arte e progetti architettonici a sua Santità per celebrare il 60° anniversario della sua ordinazione sacerdotale con la grande mostra Lo splendore della verità, la bellezza della verità che si aprirà in Vaticano il 5 luglio. Si tratta di un’impresa non semplicemente celebrativa ma di forte significato simbolico e spirituale. Già qualche giorno fa sul Corriere della sera l’iniziativa era stata salutata con un’efficace presentazione di Vincenzo Trione: «L’arte contemporanea festeggia Ratzinger». L’altroieri, sempre sul Corriere, Gian Guido Vecchi riferiva della presentazione di Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della cultura, che annunciava: «Arte e fede devono tornare a dialogare».
Più che un auspicio, valutando la sempre più ampia attenzione per il mistero e per il tormento dell’uomo nel nostro tempo, era la presentazione di una situazione reale. La necessità di Dio corrisponde all’essenza stessa dell’arte. Anche nella particolarissima situazione storica nella quale gli artisti si trovano a operare con una così potente interferenza della religione nelle dominazioni temporali in molti luoghi del mondo. E le stesse espressioni di intolleranza e fanatismo religioso sospingono a un ripensamento delle radici del Cristianesimo e del suo nesso con la democrazia. Il richiamo all’arte fu, in questo contrasto, stabilito in modo molto efficace dal compositore Karlheinz Stockhausen il quale giudicò l’abbattimento delle due torri a New York l’opera d’arte che qualunque artista avrebbe voluto compiere. Si riferiva alla rappresentazione che ognuno di noi ne ha avuto attraverso i media, spettatori lontani e increduli come davanti a un film. Non fu capito. Ma indicò la potenza espressiva di quell’evento nella sua forza di prodursi in immagine. Con quel tema si sarebbe misurato anni dopo Hanselm Kiefer nelle sue torri celesti all’Hangar Bicocca a Milano. Cominciò allora uno scontro di civiltà che non poteva non stimolare una reazione nell’Occidente. E dopo dieci anni siamo qua a constatarlo.
Ma non mi pare che monsignor Gianfranco Ravasi sia stato particolarmente originale e coraggioso negli inviti agli artisti la cui presenza corrisponde all’orientamento prevalente dell’establishment culturale senza curiosità per esperienze nuove e originali. Il cardinale osserva: «Come sempre le selezioni possono creare giudizi e critiche, ogni artista si considera insostituibile». In verità alcuni degli artisti invitati indicano la loro prevalente visione nichilistica che si può considerare religiosa soltanto per via negativa. Leggendo alcuni dei nomi, mi chiedo come si possa giustificare la totale assenza di quei pochi artisti che si sono misurati esplicitamente con il sacro. Penso a Giuliano Vangi; penso a Mario Donizetti; penso a Enzo Cucchi. E mi chiedo per quale pervicace forza del mercato siano ignorati proprio quelli che hanno accettato la sfida. Penso a Valentino Vago, autore degli affreschi nella chiesa cristiana edificata nel 2008 in Qatar, difficile problematica frontiera. E penso alla straordinaria esperienza di alcuni artisti chiamati nella difficile impresa di decorare la cattedrale di Noto, ricostruita dopo il crollo. Un collega purtroppo recentemente scomparso di monsignor Ravasi, membro della Commissione di Arte sacra del Vaticano e vescovo di Civitavecchia, monsignor Carlo Chenis, partecipò alle riunioni per la scelta di pittori e scultori che accettassero la difficile prova. Dopo la morte di Chenis si è applicato alla definizione iconografica l’attuale vescovo di Noto, monsignor Antonio Staglianò (lavorando con gli altri membri della Commissione sotto la direzione del Prefetto di Siracusa: Luciano Marchetti, Mariella Muti, Paolo Marconi, Fabio Carapezza Guttuso e Francesco Buranelli).
Noto è oggi l’unico grande cantiere di arte religiosa oltre alla cattedrale di San Pietro, ed è in larga parte condotto a compimento. Si sono distinti nel concorrere alle gare e, alcuni, nel realizzare le opere in situ, artisti giovani e di straordinario livello, che, per l’importanza della cattedrale, meritavano di essere documentati e osservati. Rispondendo all’iniziativa di monsignor Ravasi, io ne esporrò le opere a fine luglio a Palazzo Grimani a Venezia nell’ambito della 54ª edizione della Biennale. Si potranno così vedere, come in parte si vedono compiute, le notevolissime esperienze del pittore della cupola e dei pennacchi, il frescante Oleg Supereco; l’autore delle elaborate vetrate Francesco Mori; lo scultore dell’altare e dell’ambone Giuseppe Ducrot (l’unico invitato in Vaticano); il pittore della Via crucis Roberto Ferri. E, ancora in stato di bozzetti, le sculture per le nicchie di Giuseppe Bergomi, Tullio Cattaneo, Vito Cipolla, Livio Scarpella, Ernesto Arnati, Filippo Dobrilla, Croce Taravella. Molto notevoli anche la pale d’altare di Ottavio Mazzonis, destinate a non essere compiute per la morte dell’artista, e le spericolate prove per la volta di Lino Frongia.
Non dunque gli omaggi più o meno sentiti a Papa Benedetto XVI realizzati da artisti distratti o persino atei, ma un cantiere notevolissimo di uno dei più importanti edifici di arte sacra del Cristianesimo con un programma iconografico rigoroso di cui il Pontificio consiglio della cultura sembra non registrare l’esistenza. Per quale ragione poi, per quale pregiudizio? Non si tratta di testimonianze del dialogo ritrovato tra arte e fede? La volontà di istituire un padiglione della Città del Vaticano per la prossima Biennale di Venezia, può prescindere dalla concreta realizzazione di quel padiglione in una grande chiesa cristiana? La Cappella Sistina non sarebbe stata imprescindibile per testimoniare l’arte cristiana nel XVI secolo?
Esorto le illustri eccellenze di cui ammiro la sensibilità e la dottrina a non cedere alla seduzione degli idoli del nostro tempo, spesso lontanissimi dalla luce della fede e a interpretare alla lettera l’indicazione di Platone, allusa nel titolo dell’omaggio a Ratzinger: «La bellezza e lo splendore del vero». E il vero è vario, plurale, imprevedibile. Se vorranno verificarlo li aspetto non in un museo, non in una mostra, non nei luoghi dove il mercato stabilisce i valori, ma in una chiesa, in una grande e nobilissima chiesa dove lo spirito si esprime libero, in una perfetta corrispondenza con la parola di Dio e nella luce della fede.

Se verranno a Noto, dentro la cattedrale, sotto quegli affreschi e quelle vetrate, così come a Venezia davanti ai bozzetti esposti a Palazzo Grimani, forse ritroveranno quello che cercano nel compiuto e ispirato dialogo tra arte e fede. Per la maggior gloria di Dio. E con piena soddisfazione, credo, di Benedetto XVI.

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