Oltre il «lessico famigliare», oltre le radici e la rievocazione, oltre l'accettazione o l'odio verso chi ci ha generato, c'è Il fuoco che ti porti dentro (Marsilio, pagg. 224, euro 18, in uscita oggi e in presentazione giovedì a Casa Manzoni, a Milano, alle 18.30) di Antonio Franchini. Napoletano, classe 1958, lo scrittore Franchini direttore editoriale Giunti dal 2015 - è uso allo spiazzamento nei personaggi e nei toni, a volte oscillando tra iperrealismo e grottesco, sempre tenendosi saldo però al possibile e al verosimile e sempre mettendosi in gioco, che poi vuol dire a nudo. Qui, in un memoir in equilibrio vertiginoso sull'asse Sud-Nord, al centro c'è Angela, una madre che è sua madre, ma è anche archetipo; che è donna del Novecento ma anche furore femminino che attraversa le epoche. Angela è barometro e pressione insieme, fa esplodere i legami familiari ma li preserva pure, grazie ad uno stato di tensione che gestisce con maligna sapienza e che le fa corrodere, come la fame fa con lo stomaco, le immaginette che abbiamo di fascismo, guerra, matrimonio, legame con la sua propria madre e la famiglia, ma soprattutto la pressione sociale che al contempo veicola e aggredisce.
Sacrilegio. Con l'incipit di questo romanzo ha infranto uno degli ultimi tabù: il corpo della madre non profuma, «puzza».
«Ho voluto cominciare con il corpo, della madre, perché, come si capisce poi da tutto lo sviluppo della storia, stiamo parlando di una donna estremamente legata alla dimensione corporea. Nasce in un contesto antropologico culturale in cui il sentimento e il pensiero vengono dopo il corpo, dopo la fisicità. Un mondo che è soggetto da una parte alla carnalità e dall'altra al pregiudizio, alla legge scritta una volta per tutte. Lei alla dimensione del corpo è totalmente succube. Secondo una battuta di mio cognato: Nella tua famiglia pensano solo alla materia, la materia li tira giù».
Eppure lo scandalo in lei non viene dal corpo.
«Perché sull'altra dimensione, quella delle regole fisse, eterne, Angela si ribella nel modo sconsiderato per cui alla fine abbraccia idee diverse, ora l'una, ora l'altra, in maniera irrazionale, sconnessa: Mussolini un giorno è un dittatore di merda e un altro giorno un modello. A differenza di mia nonna, di sua madre, che quel ruolo lo interpretava con coerenza. Ovvio che da un punto di vista artistico l'incipit sia pensato in qualche modo per scuotere chi legge la prima riga e però poi corrisponde anche a un'idea della letteratura».
In che senso?
«Nel senso che sono stato sempre legato a un'idea di scrittura che procedendo nel racconto nega le proprie premesse. In questo caso si parte con una definizione del materno scandalosa e poi andando avanti nello sviluppo della storia, almeno io oso immaginare che sia così, verso questo personaggio il lettore trova una certa pietas».
Ma di sua madre in questo libro che cosa rimane?
«Capisco benissimo la centralità che nella vita di una persona assume la madre. C'è una letteratura sterminata in proposito. Però letterariamente funziona più o meno così: nella letteratura scritta dalle donne la figura della madre è una figura complessa ed è una figura di contrapposizione drammatica. Nella letteratura scritta da uomini meno, perché è più drammatico il confronto col padre. Una contrapposizione come la mia raramente si è vista. Chi dice io in queste pagine infatti dice spesso: Ma io, che sono uscito dal corpo di questa donna, come può essere che la senta così lontana, così estranea, come è possibile che io la trovi così disgustosa?».
È una domanda che si fa anche il lettore, fin dall'inizio.
«Il disgusto, tuttavia, è intellettuale. Questa donna incarna tutto ciò contro cui mi oppongo. Mi oppongo dunque al materno su base culturale più che ancestrale. Il mio intento vero rimane quello di raccontare lei, però. Dal momento che sono cresciuto nei valori contrari a quelli che lei avrebbe voluto darmi, questo mi porta a chiedermi: ma chi era questa donna, come ha vissuto, cosa ha fatto questa figura a prescindere dal suo rapporto con me?».
Come Angela, molte altre, in Italia?
«Di sicuro è una figura emblematica del Sud, ma anche del Paese. Non è più un modello di donna nelle giovani generazioni, ma esiste ancora nella cultura italiana, decisamente».
Anche il senso di morte ha un ruolo importante, accanto ad Angela. E un certo qual senso del teatro.
«Disfacimento e morte. Immagini di corruzione e disfacimento ce ne sono continuamente. Descrizione di uno sgretolamento. La persona si sgretola fisicamente, si sgretola intellettualmente e si sgretola così la sua capacità di recita, altro tema fondante, sì. Questa donna la sua negatività, eccentricità, non solo le ha vissute, ma in parte le ha anche recitate. Nell'epoca della sua anzianità, il protagonista del racconto porta amici e amiche a vederla mentre dice stranezze e sconcezze. Morte della madre quindi ma anche morte tout court e quindi fine della recita: non è più in grado di reggerla, non è più uno spettacolo divertente».
In Angela vive anche il Meridione, con le sue contraddizioni.
«In origine e per lungo tempo questo libro si è intitolato 'O nord e o sud: è un tema che lo percorre tutto e i numi tutelari di tutto ciò che io scrivo e ho scritto sul Sud sono Raffaele La Capria, per il mondo dei circoli nautici e dell'alta borghesia che è il mondo di mio padre, e Domenico Rea, il mondo di mia madre, provinciale, ferino, della sottocultura plebea meridionale, che mi ha sempre molto attratto. Angela imposta la sua vita con una ideologia ancestralmente reazionaria, sanfedista. Ma al contempo è una rivoluzionaria delle spinte in avanti. Il Meridione è la terra della conservazione, ma anche della rivoluzione che divampa. E poi tutto ritorna com'era. Mia madre è una figura masaniellesca, velleitaria, insofferente alla norma, un'anarchica pre-ideologia anarchica. Quando si dice anarchico di destra: ecco, una cosa del genere».
Che ne penseranno i giovani lettori?
«Che sia una parabola estrema.
Tuttavia, chiedersi se avere un genitore così oppositivo è una cosa che ti forma il carattere rispetto a un genitore contemporaneo che invece ti supporta e se quindi i ragazzi di adesso siano meno capaci di reggere il conflitto e quelli di prima lo fossero di più, è una domanda legittima».
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