Quelli che stiamo vivendo sono tempi difficili e pieni di cambiamenti con problematiche “complesse”, come tendono a definirle gli storici. Questo libro di Lorenzo Vita riesce a fotografare in modo straordinariamente chiaro e preciso la mutevole complessità di quello che è l’attuale spazio geopolitico.
“La storia non si è fermata, ma era stata solo dimenticata” dice l’autore. Putin con l’invasione dell’Ucraina ha risvegliato le nostre coscienze dalle rassicuranti certezze di una guerra oramai espunta dal core del sistema internazionale. Lo Zar ha rovesciato lo scacchiere dell’ordine globale stabilito nel 1945, nel secondo dopoguerra: un uomo che nel XXI secolo ha scatenato una guerra del XX secolo per raggiungere obiettivi del XIX secolo, rispolverando quello che Herfried Münkler, nel 2012, aveva chiamato il ritorno degli imperi, fino a quel momento considerati meri “relitti della storia”. Ma se Münkler, dieci anni fa, si riferiva all’unilateralismo dell’amministrazione Bush e all’aumento de gli interventi militari occidentali in diverse regioni del globo, oggi il quadro è profondamente mutato. Nuovi attori e vecchie reclute stanno riemergendo con forza nel sistema internazionale.
La tesi di Lorenzo Vita è tanto netta quanto realista: in un mondo che sembrava destinato a una polarizzazione tra Pechino e Washington, Gran Bretagna, Francia, Russia e Turchia, sembrano, per riprendere le parole dell’autore, “recitare una tragedia in più atti per ricostruire sfere di influenza euro-mediterranee”. Potenze solo fisicamente rinchiuse dentro i confini nazionali ma che mai hanno abbandonato i vecchi sogni di gloria. Bisognava, forse, solo attendere il momento giusto e quel momento sembra essere arrivato. Sono state le rivolte arabe e le conseguenti crisi nell’arco nordafricano e mediorientale a rispolverare le mai sopite ambizioni di attori apparentemente dormienti ma desiderosi di tornare ai fasti del passato. Il conflitto in Ucraina ha fatto il resto. Era il 2011 quando l’allora presidente francese Nicolas Sarkozy decise che era giunto il momento di ridare sfogo ai sogni di grandeur della Francia e “prendersi la Libia”, dando il via all’intervento delle Nazioni Unite per defenestrare
Gheddafi e inserendo, così, l’ultimo tassello del grande mosaico della Françafrique. Così, come ben ricorda Vita, “la Francia, ha voluto ristabilire una propria sfera di influenza sulla Libia e sul centro dell’Africa settentrionale ribadendo l’interesse di dimostrare ancora una volta di essere una potenza centrale nello scacchiere internazionale e nel Mediterraneo”. Così anche per la Siria.
“Il senso della Francia per la Siria” prende forma molti anni fa. Nel novembre del 1915 il diplomatico parigino François Georges-Picot e il politico londinese Mark Sykes iniziarono le trattative per raggiungere un accordo sulla spartizione delle regioni arabe dell’Impero ottomano. Per molte popolazioni del Medio Oriente l’intesa che raggiunsero cinque mesi dopo costituisce, ancora oggi, il simbolo del tradimento dell’imperialismo europeo e la causa di quell’infelicità araba sapientemente e amaramente descritta da Samir Kassir. Il governo inglese intendeva stipulare l’accordo per affermare un controllo su vaste regioni del Medio Oriente, passaggio terrestre e marittimo obbligato per l’In dia, perla del suo impero. Quello francese, invece, alle manie di grandeur imperiale aggiungeva un interesse culturale e religioso, prima ancora che economico, per la regione siriana. Con essa vantava lunghi legami, durante i quali aveva svolto la “missione storica” di proteggere le minoranze cattoliche. Oggi come allora la Francia ha sempre bisogno di una missione. Del resto, ricorda l’autore, “è la sua storia a rappresentare il fatto che per essere grande, deve prima di tutto sentirsi tale”.
Le rivolte arabe segnano anche il ritorno della Turchia, un tempo terra del Sultano, poi diventata una re pubblica rinchiusa nell’Anatolia. Da allora Ankara non hai mai smesso di soffrire per la sindrome di Sèvres, il trattato firmato tra le potenze alleate della Prima guerra mondiale e l’Impero ottomano il 10 agosto 1920, che ridusse drasticamente il suo territorio. Cent’anni dopo la sua firma, l’accordo tormenta ancora i turchi e resta il simbolo della liquidazione dell’impero e dell’ingerenza continua di avversi poteri esterni. Innanzi ai rivolgimenti nordafricani e mediorientali del 2011 è stato, dunque, prioritario per la politica estera turca, per lo meno inizialmente, il mantenimento e la capitalizzazione politica della rendita di posizione acquisita attraverso un decennio di “profondità strategica”, la dottrina dell’ex Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu, egregiamente descritta nel libro. Se a inizio secolo la proiezione regionale di Ankara veniva ancora interpretata dai Paesi arabi attraverso le lenti del passato imperiale, dopo le rivolte arabe Erdogan viene assurto a interlocutore privilegiato dalle forze politiche emerse dall’ondata rivoluzionaria utilizzando, prima ancora che la naturale affinità culturale, gli strumenti di soft power.
Ma il matrimonio durerà poco. Nel novembre del 2016 in un discorso particolarmente importante, riportato nel testo, Erdogan segna la nuova fase della Turchia che quattro mesi prima, veniva investita da uno dei più controversi tentativi di colpo di Stato della sua storia recente. Un discorso che ufficializzerà il nuovo imperialismo turco, già in atto nel dilaniato Mediterraneo post rivolte. Ankara manifesta il suo attivismo su più fronti, veicolando sempre la visione dell’islamismo dei Fratelli musulmani. Ha dispiegato le sue forze di terra in Libia, Iraq e Siria e le sue forze navali nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali di Cipro. Inoltre, sta esercitando una crescente influenza nel Corno d’Africa, nel Caucaso e in Europa. Se la Siria è importante per la messa in sicurezza della frontiera meridionale della Turchia, la Libia è il perno di un gioco ancora più ampio e ambizioso che prevede una strategia di proiezione della forza ben oltre l’estero vicino. La Libia, ex possesso ottomano prima di divenire colonia italiana, è un Paese baricentrico tra Maghreb e Mashreq e rappresenta, almeno dal punto di vista geografico, il cuore del mondo arabo.
Dalla Libia è possibile estendere la propria influenza tanto verso l’Africa francofona quanto verso l’Egitto; al tempo stesso è il canale di collegamento tra il Sahel e il Mediterraneo e una piattaforma da cui influenzare in termini energetici, migratori e della sicurezza interna l’Italia e, attraverso essa, l’Europa. La Libia, poi, rappresenta un ulteriore terreno di confronto con la Russia, dopo quello balcanico, quello siriano, quello caucasico e del Mar Nero. E più la partita con Mosca si allarga di nuovi sub-scenari, più è facile per Ankara non rimanere prigioniera di un rapporto troppo stretto con la Russia. Erdogan, poi, ha cercato subito di incassare pragmaticamente un importante risultato diplomatico dal suo ingresso nel conflitto libico facendo fir mare al governo di Tripoli un accordo di delimitazione delle Zone Economiche Esclusive tra Turchia e Libia, pregiudicando, così, alcuni diritti marittimi di Cipro e Grecia spezzando quella contiguità giuridica marittima necessaria che potrebbe dare un senso, almeno giuridico, alla costruzione del progetto EastMed per il trasporto di gas nel Mediterraneo orientale.
La costruzione degli hub di Tripoli e Misurata è solo la parte più vistosa e a noi vicina di una penetrazione che ha coinvolto un’area di proiezione che collega Africa occidentale e orientale, Sahel e Corno d’Africa, Atlantico e Oceano Indiano. Spazi uniti in un sistema di alleanze, accordi militari ed economici, interessi strategici e soft power che hanno costruito una vera e propria epopea turca in continenti che, in parte, si ritenevano distanti da qualsiasi ambizione neo-ottomana. In ultima analisi, se Mosca ha fin qui puntato a seminare discordia tra i diversi membri dell’Alleanza Atlantica, così la Turchia è favorevole a rapporti più stretti ma incompleti con la Russia, in maniera tale da poter poi aumentare il prezzo della sua partecipazione alla Nato. Abbiamo visto questo meccanismo funzionare nell’ultima parte della presidenza Trump quando la Turchia, nonostante la forte postura antioccidentale assunta dalla sua linea di politica estera e la decisione di acquistare da Mosca i sistemi d’arma antiaerei S-400, è stata solo blanda mente punita dall’amministrazione americana, che ne ha invece sostenuto l’escalation a supporto delle forze del presidente libico Al-Serraj in funzione antirussa.
Lo vediamo ancora oggi, con la Turchia che contratta l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, ottenendo in cambio non solo misure concrete per l’estradizione dei membri del Pkk e dei suoi affiliati e la cancellazione di tutte le restrizioni nelle esportazioni di armi alla Turchia imposte dal 2019, ma anche il via libera da parte americana alla vendita ad Ankara di 40 nuovi velivoli da combattimento F-16 e, tra le righe, forse, un maggior spazio di manovra in Libia e Siria. In questo scenario anche la Russia ha iniziato ad allargare le sue ambizioni imperiali. Nonostante durante la crisi del canale di Suez, nell’ottobre 1956, l’Unione Sovietica fornì supporto economico e militare all’Egitto di Gamal Abdel Nasser e strinse legami per aiuti militari con il Fronte di liberazione nazionale dell’Algeria, di cui ancora oggi è il primo fornitore di armi, come ben fa notare Vita, è solo quando è finito il tempo dell’Urss che “l’Africa diventa per la Russia un enorme territorio di caccia”.
Il continente africano è diventato nel tempo un ‘mosaico perfetto’ per inserirsi con quel le che sono colonne portanti della politica estera russa nel mondo a sud del Mediterraneo: armi, energia, contractors”. Sono queste le direttrici che guidano i rap porti con il continente. Medvedev, durante la sua presidenza dal 2008 al 2012, ha compiuto un lungo viaggio in Africa, in particolare in Namibia e in Angola, per portare avanti questa azione. Si può fissare proprio in questo periodo l’inizio dell’istituzionalizzazione della politica africana della Russia, con la nomina, nel marzo 2011, di un rappresentante speciale per la cooperazione con l’Africa, Mikhail Margelov. Quando Putin è diventato di nuovo presidente, nel maggio 2012, la Russia ha rilanciato le sue relazioni con l’Africa per ampliare i suoi interessi. Non è un caso che il 2 marzo 2022, quando l’Assemblea generale dell’Onu ha proposto una risoluzione che chiedeva alla Russia di cessare immediatamente l’uso della forza contro l’Ucraina tra i 35 membri che si sono astenuti 25 erano Paesi africani.
Le ambizioni russe nell’area non si limitano, però, a queste tre direttrici. Il testo si sofferma su uno dei temi centrali delle aspirazioni di Mosca nell’area in un paragrafo dal titolo emblematico: “l’accesso ai mari caldi e l’Ucraina”. Una delle linee guida della politica estera russa, infatti, è stata la ricerca di un accesso ai mari caldi per aggirare il problema del congela mento dei porti russi durante i freddi mesi invernali. Fin dal XIX secolo la Russia ha tentato di ottenere un accesso al Mediterraneo. Allora, però, gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, che collegano il Mar Nero al Mar Egeo, erano controllati dall’Impero ottomano. La pace di Santo Stefano, firmata il 3 marzo del 1878 fra la Russia e la Sublime porta al termine della guerra turco-russa del 1877-1878, sembrò aprire un nuovo capitolo per il controllo della Russia su queste aree strategiche. Nella prima stesura del trattato, la Bulgaria, alleata di San Pietroburgo, ottenne, tra l’altro, anche sbocchi sul Mar Nero e sull’Egeo, utili per far valere la propria influenza geostrategica e per accaparrarsi una concessione lungo la costa bulgara. Tuttavia, il trattato di Santo Stefano scontentò diverse poten ze, in primis l’Austria-Ungheria che attraverso il ruolo di negoziatrice ricoperto dalla Germania spinse per l’organizzazione del congresso di Berlino del 1878 che ridimensionò e divise la nascente Bulgaria, impedendo, di fatto, alla Russia di realizzare il suo disegno.
Lo sbocco venne però trovato, circa un secolo dopo, nel 1971, quando l’Urss ottenne dal presidente siriano Hafez al-Assad la concessione a poter stabilire una base militare (tutt’ora in suo possesso) nel porto di Tartus, in Siria, per il mantenimento della quale Putin è inter venuto direttamente nel conflitto siriano a sostegno di Bashar Al-Assad. Ma la proiezione strategica di Mosca sul mare non può fermarsi al Mediterraneo: il Mar Nero e il Mar d’Azov sono indispensabili per Putin. Il Mar Nero è un perno essenziale per lo sviluppo del “sistema dei 5 mari”, rete idrica concepita da Stalin per interconnettere le città più popolose della Russia, tra cui la capitale Mosca, a tutti i suoi fronti marittimi: Bianco, Baltico, Caspio, Azov, Nero. Quello D’Azov permette, invece, di stabilire collegamenti logistici tra i distretti occidentali della Federazione e la Crimea.
Impossibile non ipotizzare che, in questa “reincarnazione del senso di impero”, queste ambizioni non siano guidate necessità che la Nato posso anche solo lambire le sue coste “dove già”, ricorda Vita, “era di troppo, per gli zar, la presenza turca”. Un saggio dell’Ambasciatore Augusto Rosso del 1950 intitolato “La questione degli Stretti e la Russia nel Mediterraneo” si conclude con queste parole: “La sola cosa che mi pare si possa dire è che nella malaugurata ipotesi di uno scontro tra i due mondi il Mediterraneo non potrà sottrarsi alla dura sorte di diventare anch’es so campo di lotta e questa sarebbe una lotta di giganti”. La profezia si è, purtroppo, avverata. Le conseguenze sono spiegate con rara dovizia di particolari nel testo.
Un testo, quello di Lorenzo Vita, di rara originalità che ha sapientemente colto un tema ancora inesplorato, andando oltre le semplificazioni purtroppo, oggi, troppo spesso ricorrenti ma spiegando al lettore con dovizia di riferimenti storici e attente analisi del pre sente come il concetto di “revanscismo imperialista” non è solo mutato nei suoi attori ma anche nelle sue possibili declinazioni.
Come fa notare il compianto Ennio di Nolfo in un suo celebre saggio del 2007, nel XX secolo solo le superpotenze avevano la forza di definire le regole e la prassi del sistema internazionale. Gli Stati Uniti, con la forza di un capitale finanziario che influenzava le re lazioni globali e l’Unione Sovietica con la promozione di un’ideologia altrettanto globalizzante. Nello scontro fra modelli di sviluppo, oltre che in quello della potenza militare, si svolgeva la vita internazionale del secondo dopoguerra: fra un’idea occidentale diretta al raggiungimento di società compiutamente aperte e pluraliste e le forze che a questo progetto si opponevano. Il XXI secolo si apre proponendo subito un quadro molto più complesso. La dominazione americana, frutto del successo nello scontro bipolare, viene messa in crisi dalla minaccia del terrorismo globale e dalla comparsa di nuovi attori sulla scena mondiale. Si delinea un avvenire dominato ancora per qualche tempo dagli Stati Uniti, rispetto ai quali diviene però evidente l’affermarsi della Cina.
Oggi, a quasi 15 anni di distanza da queste considerazioni, leggendo questo libro, potremmo aggiungere un ulteriore tassello: Russia, Francia, Gran Bretagna e Turchia si sono prepotentemente inserite tra questi due poli, oramai affermati sullo scenario internazionale, cambiando il paradigma degli assetti globali.
Non possono prescinderne ma lottano “drammaticamente contro il tempo e contro il tramonto” perché la loro stessa esistenza è legata alla necessità di non tramontare di nuovo. Di questo e di molti altri temi, Vita scrive con la precisione di un notevole analista di politica estera, ma anche con la partecipazione di un testimone appassionato e impegnato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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