Gli americani, scrive Robert D. Kaplan nel suo La mente tragica (Marsilio, pagg. 142, euro 17), sono «un popolo astorico» a cui manca «una sensibilità tragica». Detto in altri termini e con un occhio alla leadership che li guida, «le élites di Washington non pagano mai il prezzo dovuto per i loro fallimenti: per questo si limitano a una scrollatina di spalle e ad andare avanti come se nulla fosse». L'astoricità, applicata a una dimensione imperiale che è un'ambizione più che una vocazione, comporta scelte disastrose perché non meditate che se pure lascia virtualmente intatta, vista la sua geografia, protetta da due mari, benedetta da un territorio ricco di risorse, la nazione in quanto tale, ne mina però l'immagine e la credibilità. Kaplan è un politologo, meglio, un analista di politica internazionale, di fama, con alle spalle una robusta militanza giornalistica sui fronti bellici dell'ultimo quarantennio. Questa esperienza, nonché una passione e un interesse per il pensiero classico, la Grecia in primis, lo ha portato nel tempo a rivedere criticamente quel tipo di azione politica dove la morale si sostituisce alla realtà. Anche per questo rifiuta l'idea di una politica internazionale come «scienza esatta, prescrittiva», convinto com'è che «nessuna metodologia della scienza politica potrà mai rivaleggiare con le intuizioni dei Greci, di Shakespeare e dei grandi romanzieri. E le loro intuizioni più potenti e profonde si situano tutte all'interno del crogiolo della tragedia, che possiede le chiavi per comprendere un mondo in continuo sconvolgimento, e in cui la lotta contro il caos dionisiaco è ineludibile». Riprendendo un'affermazione ironica di Henry Kissinger, «le élites americane sono uniche nel disprezzo per il realismo e i realisti», Kaplan la approfondisce rovesciandola come un guanto: la mancanza di realismo, ripete, è connaturata al non avere «alcun senso del tragico» e quindi a non avere «alcuna consapevolezza del fatto che la lotta non riguarda solo il perseguimento della giustizia, ma anche il perseguimento del male minore in un mondo problematico». Ne deriva altresì una morale a scartamento ridotto, o un realismo di seconda mano, che non si preoccupa mai degli effetti, convinta com'è che l'aver vinto «per giusta causa» comporti di per sé la felice accettazione del vincitore e di un nuovo corso in tal senso. Esemplare, in quest'ottica, l'analisi che Kaplan fa di un discorso del presidente americano George H. W. Bush pronunciato nell'agosto del 1991 durante una visita in Ucraina poco prima del crollo dell'Unione Sovietica. Bush mise allora in guardia contro i pericoli di un «nazionalismo suicida», il che venne scambiato dai grandi organi di stampa statunitensi, New York Times in testa, come un rifiuto ad appoggiare la lotta ucraina per l'indipendenza. Ci fu chi definì quell'intervento un «Chicken Kiev speech», dal nome di un piatto a base di petto di pollo ripieno, e chi lo definì «un colossale errore di valutazione» della situazione sovietica e ucraina. «Ma le cose stavano davvero così?» si chiede Kaplan: «L'indebolimento e la successiva dissoluzione dell'Unione Sovietica hanno portato a guerre etniche e nazionaliste nel Caucaso e in vaste aree dell'Asia centrale. Per quanto riguarda l'Ucraina, data la sua posizione geografica, la sua storia e la sua lingua, sarà sempre più importante per Mosca che per Washington e la sua indipendenza resterà sempre un punto di rottura fra le grandi potenze». In sostanza, riassume Kaplan, quel «monito contro il rischio di un'epoca di nazionalismi che sarebbe potuta seguire alla Guerra fredda era il sintomo di una saggezza superiore». Il mondo greco, ci viene detto in La mente tragica, aveva ben presente la hybris, ovvero la smodata volontà di potenza, così come la moira, «colei che distribuisce la sorte», ovvero il fato, nonché i concetti di apollineo e dionisiaco che significavano l'ordine da un lato, l'irruzione del disordine dall'altro. La tragedia, scrive Kaplan, «non riguarda tanto il lutto, e nemmeno il trionfo del male sul bene, ma la lotta senza quartiere contro forze insormontabili che porta a una nuova consapevolezza sulla nostra vita». Ne consegue che «dobbiamo cercare di pensare tragicamente per evitare la tragedia». Nel suo saggio Kaplan se la prende anche con i «guerrieri da salotto» nonché con i democratici da esportazione, ovvero i fautori di una democrazia imposta, in Medio oriente come altrove, a suon di bombe. Se la prende anche con l'illusione che il mondo «sia prevedibile e benigno», un auto-compiacimento che «di per sé è una specie di follia». C'è un disordine ambientale e un disordine sociale di cui non si riesce a cogliere compiutamente il senso perché ci si ostina a pensare «di avere un'opinabile libertà di forgiare il proprio destino. Sono passati trent'anni dalla caduta del muro di Berlino; le nostre élites, con scarsissima esperienza della vita reale, ci avevano garantito la marcia trionfale della democrazia e della globalizzazione, mentre oggi il mondo si trova in uno stato di estremo disordine» e i social media «infiammano le divisioni etniche, nazionali e religiose». Nietzsche vedeva nella tragedia greca un equilibrio fra ottimismo e pessimismo.
Questa tensione fa sì che la tragedia, scrive ancora Kaplan, «sia la vera incarnazione del pensiero rigoroso: la tragedia è superiore al moralismo», così come lo è a quell'insieme di ipotesi e di suggestioni strampalate che si possono riassumere in quella che sosteneva che con la fine della Guerra fredda «la geopolitica sarebbe sparita dalla Storia per essere sostituita dalla geoeconomia»... Quello che stiamo osservando, conclude, è la rivincita di Dioniso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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