Lezioni di Kezich e di regia

Quando certe majors (o minors) mi mandano i bollettini degli incassi - se trionfali - dei loro film, con garbo rispondo: «Non faccio il fiscalista». Chi ama un film se è bello, non se rende, trova nel libro Tullio Kezich. Il mestiere della scrittura (Kaplan, pagg. 430, euro 24, a cura di Riccardo Costantini e Federico Zecca) una vita con, nel e per il cinema. Kezich ha quel che manca di solito al critico di oggi: cultura, arguzia, esperienza, indipendenza. Non è un riferimento solo per chi ama il cinema, ma anche per chi considera il lavoro del critico diverso da quello dell’addetto stampa: il primo è - o dovrebbe essere - il sindacalista dello spettatore; il secondo è il «buttadentro» dell’imprenditore.
Del resto Bertrand Tavernier non dice che lo sceneggiatore è il «ministro dell’opposizione del regista»? Lo dice in un altro quadro composito, le Lezioni di cinema (Il Castoro, pagg. 208, euro 20, a cura di Antoine de Baecque), sintesi delle «lezioni» che grandi e meno grandi registi hanno fatto al Festival di Cannes dal 1991 al 2006. Due di loro, l’ebreo e americano Sydney Pollack e il cristiano e arabo Youssef Chahine, offrono fra le testimonianze più interessanti. E André Delvaux li ha preceduti di un po’. Ma questo non è un libro di autocommemorazioni, anzi. Oliver Stone - che al Festival del cinema di Roma porterà il film su Bush - vi racconta come fosse compagno di corso del futuro presidente degli Stati Uniti all’università di Yale.

E Andrei Konchalovsky ricorda come fosse arduo scrivere una sceneggiatura (il memorabile Andrej Rublev) per Tarkovsky. Intorno ci sono figure meno incisive, come Agnès Varda e Nanni Moretti, Stephen Frears e Wong Kar-wai. Hanno la funzione dell’elemento di contrasto.

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