Libano dalle bombe al mondiale Bianchini: «Il basket l’ha unito»

Il tecnico che ha allenato a Beirut: «Musulmani e cristiani giocano insieme. Un miracolo»

Francesco Rizzo

I professionisti del basket Usa, che da sabato saranno i giganti più attesi del mondiale giapponese, non vogliono più il loro soprannome storico, «dream team», la squadra da sogno. Poco male: agli antipodi, per organizzazione e possibilità, c’è la squadra «con» il sogno. Quello di arrivare a giocarselo, il mondiale. È il Libano, in fuga dalla guerra ma deciso a rispettare l’impegno, anche se magari finirà come nel 2002: ultimo posto, zero vittorie.
Chi, in Italia, lo capisce meglio di tutti è Valerio Bianchini, classe 1943, scudetti a Cantù, Roma e Pesaro, da sempre intelligenza e provocazione. Bianchini ha allenato in Libano, i Blue Stars di Beirut, fino ad aprile. «Ho amici laggiù ma di quelli che abitano nella zona musulmana, purtroppo, non ho notizie. Immagino il disagio in un Paese in cui, anche prima della guerra, c’erano black out improvvisi, problemi per telefonare. E ostilità interne, fra cristiani e musulmani, facilmente avvertibili. Eppure il Libano il mondiale lo vuole a ogni costo e nella tragedia che sta vivendo è commovente e molto importante. Dal punto di vista sportivo ma anche culturale».
Dopo l’esplosione del conflitto fra hezbollah e israeliani, la nazionale libanese è fuggita, con pullman e aereo, in Giordania e in Turchia, poi ha puntato verso la Slovenia, cercando dove allenarsi. Una realtà privilegiata rispetto a chi è rimasto a casa ma resta l’angoscia per le famiglie, mentre intoppi come un infortunio diventano una montagna: il pivot Khoury è andato negli Usa a curarsi ma, privo di visto, non può raggiungere la squadra. «Un altro giocatore, Fadi El Khatib, l’eroe locale - continua Bianchini - voleva portare la famiglia in salvo raggiungendo il Dubai in fuoristrada ma non ha avuto il passaporto. Così hanno caricato i suoi sul pullman, con la nazionale».
Allenato da un americano giramondo, il Libano rappresenta un campionato in cui capita che il calendario sia noto due giorni prima del via, mentre i giocatori musulmani, durante il Ramadan, si allenano digiuni e disidratati. «Ma la nazionale è di buon livello anche se riflette la contraddizione fra grandi potenzialità e poca organizzazione che si nota nel mondo arabo. Ciò che conta è che i club del campionato libanese hanno precise identità religiose, ci sono squadre cristiane e squadre musulmane, ma nella stessa formazione convivono serenamente atleti e tifosi di confessioni diverse.

È il miracolo dello sport: valorizzare l’eguaglianza al di là delle divisioni». Ed è il senso del Libano ai mondiali di basket. Dopo una preparazione da zingari, con il pallottoliere per contare i canestri subiti. Come può. Ma in campo.

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